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Paolo Rumiz e il suo Canto per Europa

Mi è capitato di partecipare alla presentazione di Canto per Europa di Paolo Rumiz (Feltrinelli, 2021) in due occasioni scolastiche. In una, i ragazzi avevano preparato anche delle letture pubbliche, emulando i reading teatrali che pure hanno accompagnato la pubblicazione del libro. Credo si tratti del migliore riconoscimento che un libro possa avere: una circolazione autonoma, una vita propria che, correndo parallelamente ai canali ufficiali della comunicazione editoriale, e andando magari oltre le attese dell’Autore, fa sì che un testo diventi veramente popolare.

Il che non vuol dire necessariamente scalare le classifiche o passare dagli scaffali delle librerie ai comodini dei lettori. Giungere dritto nelle scuole, farsi protagonista di progetti specifici di natura culturale, diventare oggetto di “letture ad alta voce” (rispettandosi in ciò la natura dell’opera) significa  – e lo rimarco con espressione fieramente retorica, classica ed universale – entrare nei gangli vitali della società, contribuendo alla costruzione di mondi migliori.

Mettere in fila le considerazioni notevoli che ho sentito espresse dagli studenti è impresa senz’altro ardua. Ne abbozzerò pertanto una rapida sintesi per il tramite di talune parole-chiave.

Posso affermare con certezza che una prima parola di sintesi votata all’unanimità dai ragazzi per illustrare al meglio l’essenza del libro è stata la parola accoglienza.

C’è chi ha sottolineato molto sagacemente che l’Europa protagonista del canto è insita già nei personaggi che danno vita alla storia, tra i quali troviamo un nocchiero greco anche se gallese d’adozione, un cuoco turco di madre tedesca, un nostromo francese di stirpe ebraica e un astronomo di origine dalmata. Con tale ossatura, va da sé che Petros, Ulvi, Sam ed un Narratore senza nome coprono geograficamente tanta parte del continente europeo, che viene poi completato dal Mediterraneo solcato da Moya, imbarcazione varata in Inghilterra sul mare d’Irlanda, che con la sua poppa rotonda e tauriforme, e i suoi occhi dipinti sulla prua, richiama alla memoria le imprese degli antichi Fenici. Eppure tutto questo intreccio non avrebbe reale senso senza il supporto della parola “accoglienza”.

Moya infatti non rinuncia a trasportare, dal Libano alla Turchia, dalla Grecia all’Italia, una giovane sconosciuta di cui l’equipaggio diventa subito complice, accogliendo per l’appunto una ragazza siriana in fuga dalla guerra. L’ospitalità di cui si discute non ha confini, limiti o pregiudizi né soffre di paure. Si direbbe una “ospitalità a scatola chiusa” anche perché la ragazza non ha veri segni identificativi, se non un anello di colore verde smeraldo, un campanellino al piede destro, un fazzoletto nero sui capelli corvini e un biglietto con su scritto il proprio nome: Europa. La ciurma, insomma, accoglie la donna senza sapere chi in effetti sia. Lei, dopotutto, è rimasta muta alle loro domande. Si percepisce semmai l’urgenza del momento, suggerita per la verità non solo dai segni di violenza che la fanciulla presenta sul corpo. L’atmosfera, d’altra parte, è a dir poco ieratica. Il dito della ragazza che indica con insistenza la necessità di prendere il largo è gesto privo in fin dei conti di angoscia o disperazione, come al contrario ci si attenderebbe. Più che di una richiesta d’aiuto, sembra trattarsi di un ordine vero e proprio. Si salpa allora senza esitazione, per cui “né latitudine né longitudine [sarà] il navigare di Moya, bensì un abisso”.

Una seconda parola di sintesi, idonea ad incarnare la struttura del libro, è la parola osmosi.

Si è sottolineata l’osmosi di etnie, incontri ed intenti, ma c’è chi ha evidenziato che, accanto ai personaggi in carne ed ossa, eguale posizione assumono nel racconto protagonisti di natura diversa. Si è appena detto di Moya, dell’imbarcazione dal nome gaelico di donna, la quale riferisce in prima persona, si presenta e si confida, è la barca che parla l’unica lingua che tutti possono comprendere giacché basata sull’amore, e viene citata da Rumiz nell’elenco iniziale dei personaggi e dei loro epiteti, non meno della Luna che vigila sulla giovane esiliata. Si dovrebbe aggiungere ovviamente il Mediterraneo, che da migliaia di anni è al centro della storia del mondo, un mare le cui rive hanno unito e diviso ad un tempo, creando una strana alternanza di speranza e odio, di vita e morte, di civiltà ed abominio.

E la parola osmosi ben rappresenta altra caratteristica del libro, che va individuata nella ricercata mescolanza dei livelli narrativi proposti, cosicché i piani di analisi nei quali addentrarsi sono davvero molteplici.  

Ci si potrebbe soffermare, ad esempio, sul piano squisitamente storico-letterario e mettere in sequenza le numerose citazioni inserite nel canto (da Omero a Kavafis, tanto per tracciare una linea); oppure, anziché seguire l’andamento razionale della storia, si potrebbe assumere a guida emotiva la musicalità del verso fino a rintracciare, perché no?, le note degli strumenti musicali suonati di notte nel cuore del deserto; o, ancora, ci si potrebbe attenere alle scelte prettamente linguistiche compiute dall’Autore. Non parlo qui solo della fusione di prosa e poesia e non parlo solo della tecnica dell’endecasillabo, il cui fluire richiama il “principio del racconto”, che è il mare visto e còlto nel suo naturale ondeggiare. Sono, questi, aspetti messi in luce ampiamente dalla critica. Parlo piuttosto del passaggio, dello slittamento, della sovrapposizione assai frequente tra registri linguistici differenti.

Un solo esempio. Canto per Europa, tra le definizioni che lo connotano, può essere qualificato benissimo come “libro marinaresco”. Della navigazione Rumiz descrive quasi ogni momento, istante o dettaglio, e lo fa con il linguaggio appropriato degli uomini di mare. All’interno di siffatto registro, però, che è ben evidente e distinguibile, la penna dell’Autore incrocia e unisce parole comunque diverse e altrimenti distanti: “intabarrato in un plaid”, si legge nel proemio, dove il “frigo” viene contrapposto alla “cambusa”, lo “zero winch” all’assenza di “battagliola”, mentre la “milonga” può confondersi con un “tango vals” e così via. Insomma: “una quarta dimensione, dove tutto sta scritto da secoli”!

Altra mescolanza da evidenziare nella scrittura del testo riguarda la felice oscillazione tra mito e storia, tra passato e presente, tra dimensione onirica e realtà, intesa quest’ultima anche come bruciante attualità.

Non a caso il lettore, pur consapevole di attraversare con le pagine del libro una storia mitologica risalente a cinquemila anni fa, avverte di compiere comunque un viaggio nell’oggi, scontrandosi con mostruose navi da crociera, con moderne ordalie (ovvero gli incendi appiccati per protesta dai migranti sull’isola di Lesbo), con i corpi (ahimè, talvolta di bambini) che galleggiano sul mare privi di vita, insieme ad una moltitudine di oggetti inanimati (quanto efficaci sono le illustrazioni di Cosimo Miorelli!). Ma visto che il Mediterraneo è quella grande macchia blu ricca di contraddizioni, il lettore troverà accanto a ciò la quiete dei piccoli porti, la bellezza di paesaggi incantevoli, l’ospitalità che si manifesta attraverso il cibo mediterraneo che tutti ci invidiano (“olive, feta, pane, pomodoro e calamari da friggere…”, oppure “rakì, dolme, spiedini, yogurt e melanzane”). E, infine, c’è l’approdo sulle rive della Calabria, allorquando Europa potrà finalmente scomparire esattamente nel modo in cui è comparsa: senza proferire parola.

A tal riguardo, l’approdo cioè sulle rive della Calabria, una considerazione aggiuntiva.

Ho riletto Canto per Europa utilizzando una guida meravigliosa, la premessa che Rumiz ha scritto per un libro non suo dove si parla di un viaggio ugualmente incredibile e rocambolesco che finisce sempre in Calabria:  il viaggio degli ebrei a bordo del battello chiamato Pentcho. Forti dunque delle indicazioni che lì si forniscono, anche in Canto per Europa si starà attenti ad individuare le parole che mutano significato a seconda degli interessi politici ed economici prevalenti e contingenti; si starà attenti ad identificare le paure antiche che d’improvviso diventano attuali, tanto da scorgere nel mito di Europa, che nasce a Creta, la prima migrante della storia, rappresentativa sol per questo di tutti i migranti della storia; si starà attenti a decifrare il modo in cui un luogo senza confini e passaporti, quale è l’acqua del mare, possa diventare lo spazio di confluenza di memoria e visioni.

Sì, visioni e memoria. Di qui, da queste due ulteriori parole di sintesi, due osservazioni conclusive.

La prima. La lettura di Canto per Europa stimola a porsi svariate domande sulla collocazione attuale dell’Europa in termini geopolitici, richiamando però tutti i lettori ad un preciso dovere etico ed intellettuale: far confluire in ogni risposta possibile quel corredo di “visionarietà latina” che il libro di Rumiz indubbiamente restituisce, offrendo alla nostra attenzione un patrimonio immenso di elementi comuni, tanto materiali quanto immateriali, sui cui riflettere.

La seconda e ultima considerazione, invece, riguarda da vicino il mio “mestiere” di storico del diritto e delle istituzioni.

In un passaggio del libro, Petros, il nocchiero, osserva amareggiato sulla sua Europa: “Il vecchio Continente è agonizzante. Ha attraversato l’abominio, ma ne ha perso la memoria. Dimenticati sono il fango, le trincee, i forni crematori, i gas, le bombe. Eppure, aggiunge, non conosco altra terra capace di unire la betulla, il fico e l’àgave, le cattedrali e i rifugi dell’Alpe, gli arcipelaghi e i fiumi divaganti, le sinagoghe, i fari e i minareti”. Da un lato, la memoria storica, che Rumiz individua quale valido strumento di difesa e di resistenza, dall’altro lato, una moltitudine di ferite inferte alla stessa.

Le ferite in questione corrispondono – facile a dirsi – alle variegate ragioni che hanno contribuito ad allontanare il passato dalla sfera degli odierni interessi. Tra queste, vanno di sicuro annoverate le dominanti visioni del mondo (che hanno mutato la nozione di tempo e di distanza), le trasformazioni intervenute nel paesaggio (che hanno rivoluzionato l’identificazione con l’ambiente circostante), l’omologazione sia materiale sia mentale, che trova nelle attuali abitudini di viaggio quell’efficace semplificazione che la biografia di Rumiz suggerisce caparbiamente di superare e condannare. Sotto altro aspetto, potrebbe parlarsi (e continuiamo a farlo con le parole di Stefano Pivato) degli elementi costitutivi di un nuovo senso comune che ama poggiare su generalizzati vuoti di memoria, dove tutto e il contrario di tutto diventano storicamente possibili. Ma stiamo attenti, aggiunge Rumiz, Europa, la ragazza siriana, “aveva una memoria pazzesca e questa funzionava da collaudo micidiale, di quelli che portano i nervi allo scoperto, spolpano le carni fino all’osso spingendo ad ammettere bugie e tradimenti”. Fino all’insegnamento ultimo.

Anno 2030. L’Unione Europea si è sciolta-dissolta e il Narratore, ormai vecchio, ripercorrere l’avventuroso viaggio. Ogni dettaglio è presente nel ricordo, vivificato quest’ultimo da una marea di appunti e notazioni. “Scrivo continuamente sul mio taccuino per non dimenticare”, aveva risposto il Narratore alla giovane siriana che gli aveva chiesto conto di quell’azione. “Allora rammenta”, questo il commento di Europa, “se vuoi che la memoria non si perda, lascia passare il vento tra le righe”. Siamo all’ultimo verso del canto.

Il vento è altra parola-chiave del testo, anzi la parola-chiave per antonomasia, e cosa esso concretamente sia, la sua esatta identificazione cioè, è probabilmente la prova di forza più ardua cui il lettore è sottoposto da Paolo Rumiz nel corso mutevole della sua narrazione.

Da parte mia ho inteso scorgere la “forza del vento” nella luce degli occhi che sempre ci si augura di poter incrociare nel momento in cui è dato incontrare persone, persone disposte a condividere magari un tratto del proprio cammino, intrapreso all’insegna di una benefica visione.

Ad onor del vero, Petros, il nocchiero, registra malinconico come quella luce si sia spenta nella gente che abita il vecchio Continente. Non ci abbandona tuttavia la speranza che essa possa riaccendersi grazie alla poesia del canto, e di questo canto. Capita così che terminata la sua lettura, si trova subito conforto, felici di salpare anche noi seguendo la rotta tracciata dalla voce degli antichi aedi, felici anche noi di salire a bordo di Moya con una piccola ciurma di salvataggio.

E magari faremo sosta – chissà – nei pressi di Cnido, per ballare anche noi un tango sul pontile di una vecchia nave.

(Riproduzione riservata©)

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La recensione riprende l’intervento tenuto a Benevento il 28 giugno 2022 in occasione della presentazione di “Canto per Europa” organizzata dall’Università per gli Studi del Sannio, con il coordinamento della prof.ssa Aglaia McClintock e alla presenza di Paolo Rumiz.