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Pazzi furiosi (secondo il diritto romano) / I

1. Un nuovo studio sulla follia nel diritto romano

Capita sempre più raramente d’imbattersi in libri che, nati per dare un contributo consistente a ricerche condotte in ambiti specialistici, acquisiscano poi un respiro ulteriore. E quando ciò capita, ci si sente in un certo qual modo rasserenati, quasi al riparo, giacché si riscopre d’un tratto tutta la vivacità della missione accademica che molti invece oggi vorrebbero scialba, priva di colore, i colori tipici delle missioni culturali di cui l’istruzione universitaria è sicuramente parte.

Si nasconde in questo incipit un consapevole gioco di parole dantesche, che qui s’intende utilizzare quale dovuto omaggio al libro della cui lettura si vuole dar conto, in quanto libro incentrato più che mai sulle parole. Mi riferisco al primo volume dei Contributi allo studio della follia in diritto romano di Aglaia McClintock (Jovene, 2020), che ha un pregio notevole: analizzare con perizia filologica tra l’altro rara un argomento di ricerca sì specifico, fornendo però spunti più ampi, che toccano finanche il senso stesso di un insegnamento. 

Nelle riflessioni che seguono allora cercherò di sostanziare soprattutto questa affermazione, attenendomi per quanto più possibile al “lessico” della medesima autrice, ovvero selezionando e combinando parti scelte del suo studio.   

Lo studio di McClintock, suddiviso in tre capitoli, riserva al lettore subito una sorpresa: se assai travagliato, se lungo e faticoso, è apparso in Europa il percorso compiuto nell’età moderna per restituire dignità al malato mentale, nei confronti di quest’ultimo le fonti classiche romane restituiscono al contrario una normativa di tipo protezionistico volta a tutelare, proprio del malato mentale, la salute e lo status. Basterebbe citare i Digesta giustinianei che fin dal primo libro, trattando del diritto delle persone, affrontano il tema dell’alienazione giuridicamente rilevante e, stabilendo prerogative e limiti del soggetto che ne era affetto, ci restituiscono di quest’ultimo un’immagine a dir poco singolare. Il “furiosus”, pur limitato nella sua capacità di agire, conservava status, dignità, matrimonio e patria potestas nei confronti dei figli: quanto di più lontano si possa immaginare da un interdetto nel senso pieno del termine!

Risalendo indietro nell’antichità romana, alle Istituzioni di Gaio o alle XII Tavole, la prospettiva non cambia. Anzi, si rafforza. Interessante, sotto questo aspetto, la disciplina riguardante il “curatore” che doveva prestare il “senno” a chi l’avesse perduto, utilizzando il proprio “consilium”, la propria intelligenza e la propria attività, per tutelare il corpo e la salute dell’assistito.

Sono le prime parole che s’incontrano nel libro: “furiosus”, “curatio”, “consilium”, “opera”, “administratio”, tanto per riferirne un semplice campione.

Va da sé che dinanzi ad una tale selva di parole si pongono problemi semantici di non poco conto. Su tutti, ovviamente, il principale riguarda il significato da dare alla categoria del “malato mentale” presa in considerazione dalla legislazione romana. Di qui le prime domande che l’autrice pone innanzi tutto a se stessa, in termini metodologici. Di cosa si discorre: del pazzo, del pazzo furioso o del depresso? Oppure, chi era il “furiosus” e chi invece il “demens”, di cui pure parlano spesso le fonti? E, ancora, quanto le riflessioni moderne, in particolar modo le determinazioni mediche, hanno inciso sulle elaborazioni dei giuristi? Ad esempio, è possibile proiettare in chiave retrospettiva l’idea odierna che si conserva in ordine all’incapacità di intendere e di volere?

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