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Due culture, due anime?

Sono trascorsi non so quanti anni da quando il mio Maestro d’università m’indusse ad approfondire sul piano storico-giuridico la metodica del cosiddetto “diritto e letteratura”. Da quello stimolo sono nati diversi studi e approfondimenti personali. In un saggio, in particolar modo, proponevo tre argomenti insoliti, racchiusi sotto i titoli di tre meditati capitoli: “Letteratura contro diritto”, “Diritto contro letteratura” e “Letteratura come diritto”. L’intento era quello di raccontare – con angolature differenti – le minacce che si nascondono dietro un diritto costretto a vivere senza letteratura o che addirittura lo pretenda.

Dalla retorica dei giudici medievali al disciplinamento ottocentesco dei temi letterari attinenti alla costruzione giuridica della nazione, fino al reimpiego moderno delle corti d’amore descritte negli antichi trattati: seguendo tali direttrici di marcia, e riflettendo sui molteplici percorsi connessi, emergeva con insistenza un interrogativo riguardante il divario esistente tra il testo normativo e la realtà sociale. Ci si chiedeva cioè se il divario in parola trascendesse l’aspetto meramente tecnico, coinvolgendo in pieno un’altra dimensione, quella “sentimentale”.

La domanda è valida tutt’oggi:  com’è “sentito” il diritto da parte dei suoi stessi cultori?

Il realismo giuridico statunitense, tentando di fornire una risposta all’interrogativo, ha promosso la costante rimozione dei confini tra le scienze sociali, dando vita a discipline e movimenti multiformi (il Law and Literature tra questi). In Europa si è guardato con favore ai cambiamenti d’oltreoceano, senza però una vera reciprocità di trattamento. E una simile combinazione ha fatto in modo che si smarrisse in fretta, tanto nel nuovo quanto nel vecchio continente, il suggerimento proveniente da una scienza consapevole sia delle trappole del formalismo sia dell’aspetto morale o etico del problema.

Per spiegare questo stato di cose si è fatto ricorso ad un riconosciuto sillogismo: inteso il diritto quasi esclusivamente come espressione del potere, esso è divenuto perlopiù uno “strumento”, un “mezzo” per il raggiungimento di uno scopo. Siffatta osservazione però ne sottintende un’altra: la scomparsa dell’idea comune di diritto quale patrimonio di valori condivisi.

Che il XIX secolo abbia fornito il contesto ideale per il sovvertimento
tradizionale è constatazione piuttosto semplice da fare. Scriveva Gian Gualberto Archi, esperto di diritto romano, che proprio nell’Ottocento tutti hanno contribuito a far sì che il diritto fosse privato del suo valore etico, fosse sradicato dalle convinzioni sociali, fondando su questa base un contro-sentimento di estraneità nei suoi confronti. Ciò nondimeno, si aggiungeva, il cambiamento in questione non impedisce – non impedisce agli storici –  di ascoltare l’eco di una memoria cancellata la quale, se afferrata nel profondo, conduce molto indietro nel tempo, mostrando le mille ripercussioni legate alle lotte che in passato sono state condotte – ma che si conducono ancora – per la definizione di agognati perimetri epistemologici.

Certo, senza quella eco, senza conoscerne le ragioni storiche, saprebbe veramente di assurdo la mancanza di comprensione che nei secoli ha coinvolto giuristi e letterati. E non a caso è apparsa come assurda “l’immagine stranamente distorta che gli uni hanno avuto degli altri, non trovando una possibilità d’accordo neppure con riferimento ai sentimenti e alle emozioni; ignorando, nel contempo, la presenza di atteggiamenti comuni, di comuni regole e schemi di comportamento, di presupposti comuni e di un comune modo di accostarsi alle cose”.

Le parole, questa volta, sono di Charles P. Snow. Con esse il celebre autore, riferendosi al traumatico rapporto tra scienziati e scrittori, inaugurò un opuscolo dal titolo provocatorio: Le due culture. Questo, comparso dapprima sotto forma di articolo, venne dato alle stampe in forma autonoma prima nel 1959, poi nel 1963, con l’aggiunta di alcune considerazioni che suscitarono una massa enorme tanto di consensi quanto di dissensi.

Si trattava di ciò: “Nella nostra società (ossia, nella progredita civiltà occidentale) abbiamo perduto anche la semplice pretesa di una cultura comune. Persone, che hanno avuto la più intensa e ricca preparazione culturale che sia a nostra conoscenza, non riescono più a comunicare tra di loro sul piano dei loro principali interessi culturali. È questo un fatto grave per la nostra vita creativa, intellettuale e soprattutto morale. Questa situazione ci porta ad interpretare il passato in maniera errata, a non capire il presente, ed a precluderci ogni speranza per il futuro. Essa ci rende difficile o impossibile intraprendere l’azione giusta”.

E poco più avanti: “Non esiste, naturalmente, nessuna soluzione completa. Nelle condizioni proprie della nostra età, o di qualunque età possiamo prevedere, non è più possibile l’uomo rinascimentale. Nondimeno, possiamo fare qualcosa”.

Questo “qualcosa” si risolveva, neanche a dirsi, nel problema che più volte ho incontrato nei miei studi e nelle mie attività, riguardante il delicato aspetto dell’educazione: “Colmare la frattura che separa le nostre culture è una necessità sia nel senso intellettuale più astratto, sia nel senso più pratico. Quando questi due sensi si sviluppano separatamente, nessuna società è in grado di pensare con assennatezza. Per l’amore che portiamo alla vita intellettuale, per il pericolo in particolare che corre il nostro paese, per le sorti della società occidentale che vive precariamente ricca fra i poveri, per il bene dei poveri che non devono essere poveri se nel mondo v’è ancora una briciola d’intelligenza, è doveroso […] guardare con occhi nuovi al nostro sistema educativo”.

Snow era un fisico che, con la vocazione del romanziere, si rivolgeva essenzialmente ai letterati anglosassoni del suo tempo, i quali erano convinti del fatto che la loro cultura, quella definibile come tradizionale, costituisse la “totalità della cultura”.

Di qui il cambio di rotta: la scienza, per poter giovare all’arte, “deve venire assimilata unitamente al complesso della nostra esperienza mentale, come una parte integrante, e venire usata con altrettanta naturalezza del resto di quella esperienza”.

Ricordo di aver letto il saggio di Snow quando ero un giovane studente di giurisprudenza, cui si era insegnato che la dottrina giuridica fosse una “scienza” e l’attività del giudice una “tecnica”, entrambe a-valutative. Mi stupì apprendere proprio in quegli anni che il diritto – e per esso il giurista o quantomeno lo storico-giurista – avesse rinunciato alla sua componente umanistica, ben potendo svolgere invece il ruolo di sutura che l’intellettuale inglese aveva invocato con il suo scritto. 

A dire il vero, lo stupore dipendeva anche da altro. Mi colpì scoprire che nel mondo occidentale vi fosse un partito a dir poco consistente di intellettuali che si opponesse alle argomentazioni di Snow e che ciò costituisse una vera minaccia. Correva l’anno 1964 quando Ludovico Geymonat presentava l’edizione italiana de Le due culture con le seguenti osservazioni: “Nessuno può essere, oggi, così cieco da non rendersi conto che l’esistenza di due culture, tanto diverse e lontane una dall’altra quanto la cultura letterario-umanistica e quella scientifico-tecnica, costituisce un grave motivo di crisi della nostra civiltà; essa vi segna una frattura che si inasprisce di giorno in giorno, e minaccia di trasformarsi in un vero muro di incomprensione, più profondo e nefasto di ogni altra suddivisione”.

Il dato ancora più preoccupante è che la riconosciuta esistenza di “due culture” ha prodotto il perpetuarsi nel tempo della peculiare contraddizione rinvenibile già in età medievale, in Cino da Pistoia ad esempio, la convinzione cioè dell’esistenza di “due anime” considerate paradossalmente distinguibili all’interno di una medesima individualità: due anime in cerca di supremazia e perciò in perenne lotta tra di loro.

Non si tratta di casi confinati alla sola antichità.

Negli stessi anni in cui il libro di Snow avviava il dibattito di cui si è appena detto, la critica italiana discettava sulle abilità scrittorie di Italo Calvino perlopiù dissacrandole. E appunto il contrasto non risolto tra le due anime, una realistica e l’altra fantastica, fu tra le accuse principali rivolte alla sua opera. L’attività letteraria di Calvino, infatti, caratterizzata da un complesso avanguardismo, fu sottoposta ad innumerevoli tentativi di “sistematizzazione”. Tuttavia, la difficoltà d’inquadrare molte delle sue invenzioni narrative all’interno di categorie consolidate o secondo criteri certi, anziché collegare Calvino alle tendenze più innovative della cultura mondiale, sottopose l’autore ad una fredda “diagnosi di schizofrenia ideologica ed artistica”: a dimostrazione del fatto che per chiunque la fuoriuscita dal “sistema” non risparmia sospetti tremendi. Nella vicenda calviniana furono addirittura avanzate accuse di “disimpegno ed amoralità”.

Singolare a tal riguardo il caso delle Cosmicomiche, il cui “eroe, abbandonata la griglia sicura delle conoscenze acquisite, si lancia verso nuove e sempre più ardite frontiere intellettuali, alla ricerca di un futuro che affascina e contemporaneamente angoscia”. L’eroe di cui si parla, protagonista indiscusso di tutti e dodici gli episodi de Le Cosmicomiche, è il famigerato Qfwfq, nome impronunciabile secondo la nostra fonetica.
Su questo personaggio allora vorrei soffermarmi fino alla conclusione – ormai vicina – del presente intervento, giacché esso rappresenta la risposta più diretta ed immediata agli auspici di Sir Charles Snow, ossia il frutto di una delle convergenze meglio riuscite tra il settore scientifico e quello artistico.

Non poteva essere altrimenti.

Ricerca, progettazione, scoperta ed invenzione erano, secondo Calvino, le finalità comuni della letteratura e della scienza, incarnando di fatto i presupposti ideali per favorire il processo di unificazione della cultura contemporanea. Qfwfq è – sotto questo aspetto – un esperimento felice, la dimostrazione degli affidabili esiti cui conduce l’apertura del testo artistico al discorso scientifico; a tal punto che le teorie relative alla formazione dell’universo, del sistema solare, delle galassie e via seguitando, condurranno l’atipico personaggio verso cammini epistemologici di tutto rispetto e di assoluto rilievo, degni anzi di un buon manuale di metodologia giuridica. Senza alcuna esitazione indicherei: il valore della memoria, l’individuazione delle diverse fasi dell’apprendimento, l’utilizzazione dei sensi, l’influenza dei sentimenti e delle emozioni, la creazione l’imitazione e l’interpretazione dei segni, la necessità di un codice linguistico, le difficoltà comunicative, la quotidiana attività di traduzione dei segni in immagini e delle immagini in parole, la moltiplicazione vertiginosa degli avvenimenti concretamente valutabili, il susseguirsi di mode e di stili, le conseguenze derivanti dalle trasformazioni ambientali, la successiva ricerca e costruzione della propria identità, la considerazione – anch’essa importante ai fini della ricerca storico-giuridica – di una pluralità di rapporti (quelli esistenti tra spazio e tempo, realtà e pensiero, fatto e concetto, norma e principio, osservazione ed analisi, definito ed indefinito, solido e fluido e si potrebbe continuare).

Sarà forse sufficiente un solo breve episodio de Le Cosmicomiche per capire a cosa si sta alludendo.

“Andavo per miglia e miglia velocissimo come si va quando non c’è aria di mezzo, e non vedevo che grigio su grigio”: così riferisce Qfwfq, vagando in un mondo senza i colori dell’atmosfera, senza aria che vibrasse, senza nulla che conservasse il calore del sole o che consentisse alla vista di distinguere una forma dall’altra. “Quel giorno – prosegue il protagonista – correvo per un anfiteatro di rocce poroso come spugne, tutto traforato d’archi […]. E tra i pilastri di questi archi incolori vidi come un lampo incolore correre veloce, scomparire e riapparire più in là: due bagliori appaiati che apparivano e sparivano di scatto; ancora non m’ero reso conto di cos’erano e già correvo innamorato inseguendo gli occhi di Ayl”.

Qfwfq scopre l’innamoramento nell’“oggetto” incolore del suo inseguimento, che osserva poi riposare sulla sabbia anch’essa incolore. Quando Ayl, aprendo i suoi occhi, vince il sonno, dopo un primo momento di spavento, riconosce in Qfwfq la presenza di una comune sostanza. Comincia così un piacevole gioco di analogie e di differenze, che porterà l’uno alla conoscenza dell’altra. Va da sé che in un’epoca remotissima, in cui non si disponeva di molti concetti, la conversazione sarà fatta soprattutto di gesti. Tuttavia Qfwfq apprenderà quasi subito che con Ayl ha pochi punti in comune e che, invece, varie sono le differenze e le contraddizioni esistenti: “[…] io cercavo un mondo diverso al di là della patina scialba che imprigionava le cose, e ne spiavo ogni segno, ogni spiraglio […]; invece Ayl era un’abitante felice del silenzio che regna là dove ogni vibrazione è esclusa; per lei […] là dove il grigio aveva spento ogni sia pur remoto desiderio d’essere qualcos’altro che grigio, solo là cominciava la bellezza”.

In questo modo, come avrebbero potuto davvero intendersi i due? E difatti non passerà molto tempo che la smania dell’uno di strappare vibrazioni sconosciute dalle cose e la volontà dell’altra di rendere incolore tutto li porterà a perdersi di vista.

Nel frattempo qualcosa di straordinario sarebbe accaduto: si sarebbe cioè formata l’atmosfera, che a sua volta avrebbe donato alla Terra la ricchezza infinita dei suoi colori: “Il grande cambiamento da tanto tempo atteso era avvenuto. Sulla Terra adesso c’era l’aria e l’acqua. E sopra quel mare azzurro appena nato, il Sole stava tramontando colorato anche lui, e d’un colore assolutamente diverso e ancor più violento. […] Ripercorrevo la Terra, rivedevo le cose che avevo visto in grigio, ogni volta sbalordito allo scoprire che il fuoco era rosso, il ghiaccio bianco, il cielo celeste, la terra bruna, e che i rubini erano color rubino, e i topazi color topazio, e color smeraldo gli smeraldi”. Però la nuova vita con luci, colori e suoni non piacerà ad Ayl che, spaventata da essa, sceglierà di non seguire Qfwfq, che pure l’aveva cercata e ritrovata. Si permetterà anzi che una grossa parete di roccia sorgesse a difendere l’altra parte di mondo fatta di grigi.

Osserverà più che amareggiato il protagonista: “[…] tutto m’apparve così insulso, così banale, così falso, così in contrasto con la persona di Ayl, con il mondo di Ayl, con l’idea di bellezza di Ayl, che compresi come il suo posto non avrebbe mai più potuto essere di qua. E mi resi conto con dolore e spavento che io ero rimasto di qua, che non sarei mai più potuto sfuggire a quegli scintillii dorati e argentei, a quelle nuvolette che da celeste si cangiavano in rosate, a quelle verdi foglioline che ingiallivano ogni autunno, e che il mondo perfetto di Ayl era perduto per sempre, tanto che non sapevo più neppure immaginarmelo, e non restava più nulla che potesse ricordarmelo nemmeno di lontano, nulla se non quella fredda parete di pietra grigia”.

Allora, potrebbe essere qui il senso di una storia giusletteraria: aiutare il diritto e i suoi cultori a superare la fredda parete di roccia porosa posta a difesa di quella parte di mondo fatta di grigi; un vero muro di incomprensione, più profondo e nefasto di ogni altra suddivisione.

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Si riporta qui l’intervento tenuto presso l’Accademia Colombaria di Firenze nell’ottobre 2020.