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Fermatevi con me: riflessioni marginali intorno alla figura di Don Leone

Consentitemi come prima cosa di esprimere un sentito ringraziamento verso quanti hanno dato vita alla presente iniziativa, convinti che io potessi dare un efficace contributo ad un dibattito che, invece, supera di gran lunga le mie capacità. Lo dico, in primo luogo, da un punto di vista soggettivo: temo, infatti, che le mie parole non avranno la carica emotiva di coloro che mi hanno preceduto (prodotta evidentemente dall’amore che la comunità di Andretta, non meno di quella di Cairano, tuttora conservano verso uno dei suoi figli migliori); e lo dico, in secondo luogo, da un punto di vista oggettivo, in quanto la lettura del pensiero di don Leone, così carico di simboli e di significati, costringe ad una riflessione lunga e paziente, destinata a coinvolgere l’animo prima dell’intelletto.

Da storico abituato alla filologia mi accingo ad un primo giudizio riguardante le tre introduzioni a questo libro, che ha un titolo senz’altro appropriato: Fermatevi con me. Ho notato che siffatte introduzioni convergono su uno stesso punto: la definizione di don Leone quale uomo di carità, dedito al prossimo prima che a se stesso, capace di far corrispondere al disordine (alla trasandatezza) del corpo l’ordine (il rigore) dello spirito.

A questa verità narrativa Antonella Cuozzo, curatrice del libro, giunge attraverso un cammino di fede e di spiritualità. Dalle sue parole, infatti, traspare una forte religiosità. Come don Leone, ella crede nel potere salvifico della preghiera e nel fatto che chi si affida ad essa compie su questa terra un percorso verso la «santità». Parola che l’autrice riporta virgolettata, quasi a volerne recuperare il senso più autentico, concreto e quotidiano; quello magari riposto nella donna intesa quale equilibrio della famiglia e fonte di maternità. Di qui l’affidarsi (di Antonella e di don Leone) a Maria: la madre per eccellenza, che tutto comprende.

Al contrario Carmine Ziccardi, da esperto archivista qual è, utilizza le carte di don Leone così come il suo lavoro gli suggerisce di fare: in controluce. Egli, nella sua introduzione, non è l’uomo che si abbandona alla fede, ma all’esperienza dei ricordi e alla lettura del tessuto sociale andrettese. Nulla, neppure l’essere cristiani devoti, deve risultare d’ostacolo per lo studioso, occultando ogni possibile interpretazione riguardante non solo il pensiero, ma anche il carattere dell’uomo e il suo comportamento. Pertanto l’intervento di Ziccardi lascia emergere i rumori di fondo, le voci dissonanti, i balbettii frettolosi, su cui tuttavia pesa un giudizio di valore ben preciso: la calunnia – egli dice – non manca mai nella vita dei santi; oppure: la bontà, la semplicità, la carità proteggono la statura morale dell’uomo da ogni interpretazione maliziosa. Deduco, insomma, che si può arrivare a riconoscere la santità non solo attraverso le vie della fede (come fa Antonella Cuozzo), bensì attraverso i meccanismi della ragione o, se si preferisce, del ragionamento (come fa Carmine Ziccardi).

Pietro Guglielmo, infine, offre un’interpretazione della teologia di padre Leone, agevolando di molto il lettore di questo libro. Egli dispone, uno dopo l’altro, principi e assiomi, regole teoriche e assunti morali: i tre modi ad esempio per arrivare al Padre con le rispettive tappe spirituali, la libertà che l’uomo ha di scegliere tra il bene e il male, le insidie che il mondo di continuo tende, fino al mistero della Croce: simbolo di un peccato atroce, eppure fonte di salvezza, giacché speranza di risurrezione dello spirito o – come scrive lo stesso Guglielmo – speranza di un’umanità rinnovata. E tutto questo vien detto con la certezza di colui che ha letto ripetutamente le pagine di un diario che affonda le proprie radici nella memoria di chi ha condiviso con don Leone – per quanto io ne sappia – temi e discussioni, problemi e disagi, nel continuo alternarsi tra domande capziose e risposte impertinenti. Si badi, però, che neppure una rigorosa ricostruzione teologica impedisce al professore di definire la persona di cui parla «faro di fede e di umanità».

Giungo così ad una prima conclusione interpretativa: parlando di don Leone e percorrendo tre sentieri diversi (uno fatto di fede, l’altro di storia esterna e un altro ancora tutto teologico), gli autori approdano ad una medesima certezza: la «santità». Ma l’approdo è, al tempo stesso, punto di partenza; nel senso che la «santità» invocata dagli introduttori viene da loro proposta come guida alla lettura del libro. Allora, mi domando: si può accettare una simile sfida e fare della santità un luogo di analisi e di discussione?

V’è una prospettiva storiografica che (con linguaggio mutuato dalle scienze evoluzionistiche) invita a considerare le cosiddette «condizioni di possibilità», per cui – lo dico in estrema sintesi – noi siamo quello che siamo – rispettivamente – nelle diverse situazioni storiche. Detto altrimenti: non tutti i santi della storia sono stati santi allo stesso modo; non lo sono stati certo per le stesse ragioni né per le stesse rinunce o abnegazioni. Quale è stata, dunque, la “santità” di don Leone rispetto al suo tempo?

Per rispondere a questa domanda, ne devo porre altre. Come si è posto, ad esempio, don Leone dinanzi alla legge? Mi riferisco – è ovvio – alla legge di Dio, ma pure a quella degli uomini e del senso comune. E ancora, vi sono delle corrispondenze storiche e letterarie cui appellarci? E fino a che punto è possibile spingere la nostra considerazione senza timore di esagerare? Partirò allora da qui, da questi interrogativi, utilizzando in parallelo uno scritto di Claudio Magris, in cui ho trovato più di un’ispirazione.

Dopo una prima lettura, a me sembra che don Leone tenda davvero a riscattare il mondo in cui si trova a vivere e a operare. Ma lo fa alla maniera dei poeti o degli artisti, cioè in modo anarchico, ribellandosi alle regole convenzionali preposte a governare stili e comportamenti. Come uomo di chiesa egli sa che vi sono norme rigide da rispettare, ma sa anche che accanto alle norme scritte o gerarchicamente imposte ve ne sono diverse altre. Mi verrebbe da sottolineare che dai tempi di Antigone abbiamo scoperto che vi sono principi e valori che l’uomo tende a darsi al di fuori di qualsiasi «scrittura» e in qualunque sfera si trovi ad operare: la religione, la politica, la vita affettiva… E basta fermarsi un attimo per comprendere che nella vita di tutti i giorni, forse senza neanche più farci caso, ci appelliamo continuamente a quei principi e a quei valori, cui ricolleghiamo oltretutto significati sempre nuovi. Ad esempio, non so quante volte ho sentito dire in questi mesi che occorre nel mondo laico un nuovo accordo sui valori, senza il quale la politica rischia di rimanere nel pantano in cui si trova; e ancora, non so quante volte ho sentito ripetere dagli amici che il “nuovo anno” dovrà essere per loro un “anno nuovo”, inteso come inizio di una nuova vita: la rinascita che altri raccontano – che so io – dopo un viaggio o dopo un incontro rivelatore. Avverto però che bisogna essere cauti nel parlare, perché talvolta il cambiamento tanto invocato arriva per davvero, bussa alle nostre porte senza preavviso, chiedendo a gran voce di entrare. E quando si scava nel profondo del proprio cuore, fino ad uscire rinnovati nello spirito, spesso si va incontro ad una pesante controindicazione: si rischia di non essere più riconosciuti all’esterno; si rischia cioè di essere espulsi da un mondo che improvvisamente non parla più la nostra lingua e che con difficoltà riesce a catalogare principi e valori nuovi, quelli appunto ostinatamente ricercati.

Da Francesco d’Assisi a Gerardo Majella a Padre Pio da Pietrelcina, l’umanità è piena di incomprensioni e di conflitti, che alcuni si limitano ad osservare e che altri invece vorrebbero giudicare. Sto semplicemente dicendo che i nostri principi e valori – se preferite: le nostre leggi non scritte – normalmente non hanno bisogno di tutori; l’amicizia, l’amore o la contemplazione del cielo stellato normalmente non hanno bisogno di giudici o di avvocati, a meno che essi non si tramutino in violenza e sopraffazione. E questo capita – mi par di capire leggendo don Leone – allorquando il male arrivi ad accecare o a rendere sordi, privando l’uomo non tanto della sua libertà, quanto della possibilità di utilizzarla bene, nel modo giusto.

Va aggiunto che la gestione di questo conflitto (che padre Leone ha sperimentato su di sé, sulla propria carne) non manca di una luce di sogno e di speranza e – se posso dirla tutta – di una carica profetica, per cui verrà un giorno in cui il lupo e l’agnello berranno amichevolmente alla stessa fonte: che bello credere in questa profezia così carica di redenzione!

Una redenzione (si ripete, poetica prima che religiosa) che finisce col tingere d’azzurro tutto di don Leone, anche certe pretese politiche considerate forse troppo frettolosamente estranee al mondo cattolico. Non bisogna essere esperti di storia politica per sapere che – negli anni in cui don Leone svolgeva il suo sacerdozio – Giorgio La Pira, l’indimenticabile sindaco di Firenze, raccogliendo l’insegnamento di Dossetti, fu convinto assertore del valore appartenente a talune significative «scoperte» cui il marxismo era giunto. Prima fra tutte, l’esigenza di avviare una rapida trasformazione della società borghese a vantaggio di una società di tipo diverso, dove le strutture economiche, politiche e culturali fossero meglio conformi alla natura e alla dignità della persona umana.

Trovo superfluo ricordare a questo uditorio che la dura condanna della società borghese capitalistica, del suo individualismo e del suo atomismo (parole di Giorgio La Pira, ma anche di don Leone), e la connessa rivendicazione di un’economia associata per la ricomposizione di tutta la società, costituirono un solido terreno di incontro ideale e politico tra cattolici e comunisti; quello stesso terreno su cui, più tardi, si trovò a lavorare Aldo Moro e che adesso la Chiesa riconosce permeato di una radicale ispirazione religiosa, oltre che di un raro spirito di povertà cristiana, causa prima di beatificazione. È stato così per La Pira, Dossetti, Moro. Sotto questo profilo, allora, il pensiero di don Leone non presenta novità di rilievo. La polemica nasce per un’altra ragione, che mi sentirei di sintetizzare in tal modo: la pretesa politica di don Leone, sebbene in linea con la cultura dell’epoca, era indirizzata alla costruzione di un uomo nuovo che il parroco di Andretta riusciva ad immaginare libero finanche dalla legge (se ne è parlato a proposito del suo controverso rapporto prima con Toni Negri, poi con Totò Riina). Certo, giunti a questo punto delle nostre osservazioni, dovremmo domandarci: Di quale libertà e di quale legge stiamo parlando?  La libertà del poeta o dell’artista? La legge degli uomini invisa a Dio?

Il parroco mi consentirà di rammentare in questa sede – sia pure con una certa approssimazione – che San Paolo, nella sua «Lettera ai Romani», scrive che «la legge provoca la collera di Dio»; che l’applicazione che gli uomini fanno della Torà, la Legge per eccellenza, fa prendere vita al peccato, alimentandolo. E se ognuno di noi sa che da tali parole è derivata parte della teologia protestante, non per questo escludiamo San Paolo tra i pilastri della nostra Chiesa. Basta intendersi sulle parole e sui loro significati. La legge di cui parla don Leone è la legge del libero arbitrio; una legge orrenda per il sol fatto che essa contiene in sé la possibilità di sbagliare. E come ci si libera dall’errore? Con il salto nella grazia, con l’abbandono alla fede; che per i laici è il salto e l’abbandono alla totalità di una vita degna di questo nome. Si tratta, a ben guardare, di uno straordinario terreno d’incontro tra credenti e non credenti, tra laici e cattolici; una possibilità di dialogo che induce Pietro Guglielmo a parlare giustamente di aspetto laico della religione in don Leone: prete per questo amato più a sinistra che a destra.

Ma v’è un appiglio letterario a tutto questo?

Kafka pone la questione in questo modo: l’uomo è consapevole del male che lo circonda. Ma è proprio questa consapevolezza che lo induce ad un peccato maggiore: pretendere di essere puro, non sporcandosi col fango della vita. Però la superba pretesa di essere senza colpa allontana gli uomini tra loro, costringendoli ad una perpetua difesa di se stessi all’interno di un processo senza fine. Sarà così nel giorno del Giudizio?

Mi piace pensare che don Leone, uomo di cultura ampia ed enciclopedica, abbia immaginato di rispondere a Kafka tentando di fornire ai lettori del suo Processo una possibile via di uscita: “la vita non è soltanto viaggio nelle tenebre, ma è anche anticipazione dell’aurora e riconquista dell’innocenza”.

Ricalcando ancora le parole di Claudio Magris, si potrebbe aggiungere che Don Leone sapeva che a questo mondo è impossibile non violare alcunché; sapeva che nell’età contemporanea ogni fondamento si è dissolto, che l’uomo (come l’arte, la filosofia) poggiano sul nulla, sciolti da ogni tradizione, religiosa o culturale che sia. Essi non hanno sete di nulla, non reclamano verità né sapienza né giustizia, annullati come sono in uno spietato nichilismo, che don Leone nei suoi scritti ha intravisto e denunciato ma che oggi è riconosciuto come malattia e destino dell’Occidente. Si ritorna per questa via al motivo rigenerante della Croce e al ruolo vivificante di Maria.

Mi fermo qui, constatando malinconicamente l’impossibilità di un criterio valutativo superiore ai fatti e al processo che li riguarda. Già, il “processo”: l’unica arma che noi – uomini imperfetti – abbiamo per accertare come siano andate realmente le cose. E Antonella Cuozzo vede giusto, quando dice che don Leone andrebbe meglio ricercato nella “testimonianza” di chi lo ha conosciuto.

Se dunque questo mio intervento potrà mai avere valore, ignorando quanto detto fin qui, vi invito a ricercarlo nel solo aneddoto che posso raccontarvi, quale piccolo contributo da affiancare ai tanti ricordi espressi da parte di chi mi ha preceduto questa sera. Quando ho informato il mio parroco di questo convegno, egli mi ha detto: don Leone si è rivelato a me una sera d’inverno di molti anni fa. Dormivamo in chiesa quando sentimmo bussare alla porta. Si trattava di un mendicante che, scalzo, affondava i piedi nella neve. Don Leone come prima cosa gli offrì le sue scarpe, poi lo portò dentro e mi chiese di preparare un pasto caldo, aggiungendo: “Gioisci, perché Cristo è tra noi!” Grazie.

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Lo scritto sopra riportato è la trascrizione, curata da Paolo di Castro, del mio intervento presso la Cattedrale di Santa Maria Assunta di Andretta (AV) in occasione della presentazione del libro di Antonella Cuozzo (a cura di), Fermatevi con me. La riflessione, il pensiero, la parola di don Leone Maria Iorio.