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La costruzione giuridica del territorio alle origini della vicenda espropriativa nazionale

Comincio col dire subito una cosa tanto semplice quanto banale: la costruzione giuridica del territorio nazionale costituisce un argomento complesso e delicato, un terreno sul quale occorre muoversi con particolare cautela. Tuttavia, aggiungo, ho la fortuna di appartenere ad una generazione che ha alle proprie spalle una storiografia giuridica già sufficientemente critica che, anche su siffatto argomento, ha saputo “destrutturare” con pazienza, intelligenza e competenza enfatiche costruzioni del passato.

Unificazione giuridica ed espropriazione

[…] Anche di recente, la storiografia ha ribadito l’idea secondo cui la costruzione giuridica del territorio nazionale fu la conseguenza di una convergenza di interessi o, meglio, di una consonanza tra un progetto politico e un programma economico.

Orbene. Da un lato dunque i politici, per i quali l’unificazione giuridica rappresentava lo strumento con cui rafforzare lo Stato nazionale, che a sua volta avrebbe dovuto accogliere in sé i tanti particolarismi preunitari; dall’altro lato invece gli economisti, per i quali l’unificazione giuridica rappresentava la misura finale per rendere operativo sul territorio nazionale un mercato omogeneo, dopo aver ottenuto l’abolizione delle barriere doganali interne nonché l’affermazione del principio della mobilità delle merci e delle persone.

Segnalo, tuttavia, che in questa prospettiva la soppressione della frantumazione giuridico-territoriale assume un ruolo semplicemente funzionale al soddisfacimento di interessi politici ed economici. Detto altrimenti: il diritto, da strumento necessario e indispensabile alla costruzione e consolidazione dello Stato nazionale, in questa prospettiva assume un ruolo del tutto marginale, ovvero di “supplenza”, di “rimedio”, di “emergenza”.

La domanda, allora, è la seguente: come è possibile che ciò sia accaduto nel Parlamento unitario delle origini, così fortemente popolato di insigni giureconsulti, monumenti della scienza giuridica nazionale, personaggi chiave nella storia dell’Italia unita?

Un campo d’indagine particolarmente fertile è quello dell’espropriazione per causa di pubblica utilità. Per più ragioni: 1) perché l’espropriazione è un buon paradigma per leggere alcuni tratti caratteristici del processo di formazione del diritto amministrativo contemporaneo (dei concetti di Stato e sovranità, di territorio pubblico e di proprietà privata); 2) perché l’espropriazione è un istituto giuridico dotato di innegabili versatilità operative e perciò al centro di una pluralità di interessi politici, sociali, economici; 3) perché l’espropriazione così intesa, con tutto il suo bagaglio di significati, ha costituito l’oggetto di una fondamentale legge di unificazione, la cosiddetta Legge Pisanelli del 1865.

Valore costituzionale della Legge Pisanelli

Fu proprio Giuseppe Pisanelli a firmare, in pieno accordo con i Ministeri della Guerra e dei Lavori pubblici, questa fondamentale legge, la n. 2359, approvata però in virtù di poteri straordinari, senza seguire cioè il normale iter parlamentare.

L’atto ufficiale rimane la Relazione letta alla Camera dal Ministro di grazia e giustizia salentino: uno scritto dotato di chiarezza e acume esemplari, quasi una vera e propria monografia per lungo tempo utilizzata – in assenza tra l’altro di un regolamento di attuazione – come il documento interpretativo più vero e autentico della normativa cui dava luogo. Non, dunque, una mera spiegazione di precetti legislativi, bensì un discorso politico ad elevato contenuto costituzionale, che è possibile leggere in parallelo al celebre Discorso inaugurale alle lezioni napoletane di diritto costituzionale, da cui si evincono appunto i valori-guida del discorso costituzionale di Pisanelli, rappresentati dall’uguaglianza dinanzi alla legge e dall’unità nazionale. Ebbene, entrambi questi valori erano incarnati appieno dallo strumento espropriativo.

Nella “Relazione Pisanelli”, infatti, si legge che la necessità di una legge generale sull’espropriazione pubblica ritrovava la propria giustificazione nel bisogno che la nascente Italia avvertiva di intraprendere e portare a compimento grandi lavori di interesse pubblico, intesi come strumenti di civiltà e progresso, utili per cementare l’unità nazionale appena raggiunta.

Al contrario, le differenti discipline espropriative vigenti nelle varie province erano causa di non pochi danni verso i privati cittadini, penalizzati dalle diverse misure di risarcimento, e verso gli imprenditori poco propensi, nell’incertezza normativa, a concorrere negli appalti.

Sappiamo bene, inoltre, che i principi di uguaglianza e unità avrebbero dovuto essere realizzati attraverso un efficace processo di centralizzazione, capace di trovare il delicato punto di equilibrio tra la sovranità dello Stato e le garanzie degli individui. Nell’«impostazione costituzionale» di Pisanelli, poi, non mancava un certo gradualismo, la consapevolezza cioè di dover tener distinto il piano delle autonomie da quello del primato politico.

È evidente che la disciplina relativa alla dichiarazione di pubblica utilità, alla pubblicazione del piano particolareggiato di esecuzione o all’espropriazione delle zone laterali offriva numerosi spunti a tal riguardo. In particolare, però, colpisce il paragrafo 5 della relazione a S.M., dedicato allo spinoso problema dei piani di allineamento, di risanamento e di ampliamento delle città.

La cosiddetta «servitù di allineamento» coniugava mirabilmente gli interessi pubblici con quelli privati. Non solo: i vincoli derivanti alle proprietà private dai «piani regolativi» costituivano una delle più delicate questioni in cui il «dottrinarismo nazionale» era chiamato a fare i conti con una domanda reale di unità, intesa a meglio rispettare le condizioni e i caratteri propri delle regioni italiane. Tralascio il dato esegetico, ma preciso che questo capitolo della Legge sull’espropriazione ebbe una gestazione difficile. Il risultato finale servì, a detta dello stesso Pisanelli, ad evitare un decentramento amministrativo tout court.

Il disincanto nelle riforme del 1879 e del 1885

Il risultato finale, dunque, dell’operazione pisanelliana avrebbe dovuto essere l’annullamento nel campo dell’espropriazione delle antiche divisioni nonché la riconduzione nell’alveo statale delle consuetudini locali, delle rivalità di provincia, degli istituti municipali e di quant’altro era servito a costituire quella «babele legislativa» assai perniciosa per l’unità nazionale appena raggiunta.

L’uso del condizionale è d’obbligo, se pensiamo che «uno dei sintomi della mala riuscita della Legge si ha nella cura che tutti pongono a non applicarla». Così ebbe a dichiarare in una sua memoria Felice Francolini: non un giurista, ma un celebre architetto che, costretto per ragioni di mestiere a confrontarsi con strumenti giuridici, fu tra i primi a segnalare l’anomalia di una legge – diremmo con una battuta – fatta troppo bene per poter essere applicata.

Forse raramente è possibile registrare, come in questo caso, la contraddizione di una normativa che, pur riuscendo a disegnare un istituto con contorni teorici esemplari, generava in ordine alla sua applicabilità non pochi dubbi e incertezze, finendo col non rispondere più agli scopi per cui essa era stata elaborata.

Il disincanto in parola, sottolineato con rapidità solo dai cosiddetti pratici (architetti, ingegneri, geometri, periti, ecc.), era destinato ad essere confermato inevitabilmente anche in sede parlamentare, dove tra l’altro mai era stata affrontata una discussione generale in materia di espropriazione.

Una prima riuscita riforma fu quella Baccarini del 1879, che non esito a definire un tentativo di riforma politica (e non solo procedurale, come dicono le fonti). Dopotutto, in essa emerge una considerazione della dimensione giuridica del territorio già profondamente diversa rispetto a quella del Pisanelli.

Se nella Legge del ’65, infatti, la parola d’ordine era “accentramento” o “centralizzazione”, nella riforma del ’79, al contrario, prevale l’idea (scongiurata da Pisanelli) di “decentramento”.

Vi furono, è vero, forti resistenze: la riforma Baccarini dopotutto ebbe percorsi diversi alla Camera e al Senato. Alla Camera volle disegnarsi un’espropriazione i cui protagonisti non fossero più il Parlamento e il Consiglio di Stato, ma il Ministero dei lavori pubblici, gli Uffici provinciali del Genio civile, i Catasti e soprattutto i Prefetti. Intervenne poi il Senato a limitare l’ampliamento delle competenze espropriative del prefetto e ad introdurre una serie di restrizioni a tutela della “tradizione pisanelliana”. La più importante di queste fu il ripristino dell’autorevole intervento del Consiglio di Stato nell’approvazione dei piani regolatori dei Comuni di medie e grandi dimensioni, abolito dai deputati. L’azione del Senato servì essenzialmente a scongiurare che affari giuridico-amministrativi assai importanti, sollevati frequentemente nell’approvazione dei piani regolatori edilizi, fossero risolti da una “giurisprudenza prefettizia” difforme da comune a comune, preservando così la dimensione giuridica unitaria del territorio nazionale.

Tuttavia le istanze del decentramento amministrativo prima, quelle del socialismo poi, si sarebbero ben presto concretizzate in una serie di riforme capaci di piegare l’originaria formula legislativa al soddisfacimento di una pluralità di interessi, spezzando definitivamente la vocazione centralista appartenuta al legislatore del 1865, surrogata da una miriade di disposizioni diverse da zona a zona e magari all’interno dello stesso territorio.

Basti pensare che il Risanamento della città di Napoli, deciso dal Parlamento nazionale a seguito dei gravi danni prodotti dal colera del 1884, aprì la strada ad un gran numero di espropriazioni (dinanzi alle quali la Legge Pisanelli risultava inadeguata e insufficiente), ma costituì anche il momento ideale per raggiungere gli scopi che il Senato italiano del ’79 aveva semplicemente ritardato.

Sarà sufficiente rammentare che l’articolo 13 della Legge per Napoli, in materia di indennità di esproprio, non ruppe solo il principio del valore venale, bensì l’unità del sistema pisanelliano. Infatti, l’indiscriminata estensione di siffatta norma alle altre città del Regno, ricondusse l’unificazione legislativa del ’65 alla “molteplice varietà della legislazione regionale” (l’espressione è di Vittorio Scialoja), gettando in una grave confusione giuristi, magistrati e burocrati.

Allo stesso modo, le autorità pubbliche locali, escluse ufficialmente dalla dichiarazione di pubblica utilità, si trovarono a gestire in realtà un eccezionale strapotere proprio per il tramite delle legislazioni speciali per il risanamento, la cui validità – per Napoli e le altre città italiane –  è stata prorogata nel tempo praticamente all’infinito (la Legge pel risanamento di Napoli è stata abrogata nel 2001, dal 1885!).

Valga per tutti il paradosso della città di Roma dove, già nella seconda metà degli anni Ottanta dell’Ottocento, si cominciò ad espropriare in base a tre normative differenti: la Legge Pisanelli, la Legge per Napoli ed un’altra di riforma del 1887, ciascuna utilizzata a seconda delle circostanze e da parte delle più disparate autorità.

Senz’altro contribuirono al raggiungimento di questo risultato anche le legislazioni, per così dire, complementari all’espropriazione, come quelle coeve sui lavori pubblici e per la tutela della salute pubblica. E subito dopo la legge forestale e quella mineraria, poi ancora le normative in materia di bonifiche, risaie, trafori, strade ferrate, fiumi, telegrafi e così via.

Conclusioni

La bibliografia legislativa, la sola che ho voluto proporre in questo incontro, dimostra di per sé che l’incanto suscitato dalla Legge Pisanelli rimase confinato in un ambito puramente ideologico. Se questa legge, infatti, rappresentò concettualmente una delle migliori manifestazioni della sapienza giuridica dell’Italia unita, in ordine alla sua applicabilità concreta si posero enormi problemi e forti discussioni. Non certo per caso, a questa normativa non seguì mai un regolamento di attuazione.

Questo vuol dire che la realizzazione del progetto costituzionale da parte di un “radicalismo moderato” comportò nel campo dell’espropriazione (ovverosia di un’importante legge di unificazione nazionale) l’annacquamento di alcuni dati dell’esperienza, operando delle vere e proprie fratture, delle vere e proprie censure, che varrebbe la pena senz’altro di approfondire, visto che esse interessarono pure il campo della prassi giurisprudenziale e (difficile a dirsi) di una scienza esclusa dal “circuito ufficiale” del sapere giuridico. Ma ci inoltreremmo in altri sentieri, che oggi non possiamo percorrere.

Mi limito qui a ricordare semplicemente l’insufficienza della “storia di un’idea” che non si trasformi pure nella “storia di una cultura”, incentrata intorno a discorsi normativi e attenta alle persuasioni condivise dei diversi gruppi sociali come anche agli atteggiamenti mentali diffusi, seguendo la lezione impartitami negli anni di formazione, secondo cui «le forme collettive che strutturano il pensiero dei singoli e ne costituiscono la grammatica restano in realtà mute: mute come silenti rovine, come sassi inespressivi e misteriosi graffiti, senza l’intervento dell’interprete che conferisca loro un significato».

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Viene riportato sopra l’intervento al convegno Sfruttamento Tutela Valorizzazione del territorio: dal diritto romano alla regolamentazione europea e internazionale, organizzato presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli; intervento poi ampliato e confluito, con modifiche, nel volume omonimo curato dalla prof.ssa Francesca Reduzzi Merola per Jovene editore, nella collana Diáphora diretta da Luigi Labruna.