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Vuoti di memoria

  • “Professore, grazie per avermi ricevuto a quest’ora”.
  • “Figurati, Giuseppe. Ma quale è il motivo di tanta fretta?”.
  • “La memoria”.
  • “La memoria? In che senso?”.
  • “Guardi, guardi qui professore. Noi, è vero, non ci incontriamo ormai da un po’ tempo. Credo da circa quattro anni. Nel frattempo, sa, ho avviato anche un’esperienza amministrativa. Diciamo che su questo punto non l’ho ascoltata. E ieri ho avuto tra le mani questo progetto. Legga, legga. Capisco la necessità di ottenere un finanziamento, ma con un tratto di penna si è cancellato il ricordo…”.
  • “Il ricordo di cosa?”.
  • “Di tutto ciò che è stato”.
  • “Del passato, intendi?”.

  • “Sì. Professore, rammenta quando diceva a lezione che il vuoto di memoria è diventato un dato strutturale del nostro vivere?
  • “Lo dicevo però per rimarcare ai ragazzi il valore della storia e, prima ancora, dello storico. Anzi, del lavoro che lo storico compie come interprete”.
  • “Appunto. Ma ora provo davvero una strana sensazione, che mi assilla. Temo che la brevità della memoria consenta di annullare tutte le esperienze vissute”.
  • “Le esperienze vissute?”.
  • “Certo. Riguardi il progetto, consideri come esso è scritto. Per un finanziamento, che neppure mai si avrà, si butta all’aria una storia, un’intera storia. Si dice, a chi ha tra le mani queste carte, che tra l’altro saranno conservate a lungo negli archivi: nulla è esistito prima. Come si fa a non avere rispetto?”.
  • “Calmati e… ascolta. Innanzi tutto, non stare in piedi. Accomodati qui, davanti al finestrone, dove a te piace. Ricordi questo libro di fine ‘500? Ti ha sempre affascinato, ma una cosa non l’hai mai vista. Ecco, osserva quest’immagine. Come la descriveresti?”
  • “Professore, vedo una donna di mezza età, vestita di nero, che reca sul capo uno scrigno pieno di gemme. Ah, noto che con due dita della mano destra tira la punta dell’orecchio destro, con la sinistra trattiene un cane”.
  • “E com’è questo cane?”.
  • “Nero. Nero come la veste che la donna indossa”.
  • “Ti spiego. La memoria è una donna di mezza età perché, agli inizi dell’età moderna, si riteneva che allora le facoltà mnemoniche fossero al massimo delle proprie potenzialità. Lo scrigno allude al fatto che la memoria sia l’arca delle scienze e dei tesori dell’anima; il colore nero indica fermezza; il cane è fedele come fedele deve essere la memoria. Quanto al gesto di tirarsi l’orecchio, è perché in Plinio è indicato che ivi è la sede più profonda della memoria. Il particolare è insolito: infatti nella tradizione classica la memoria si colloca piuttosto nella vista, considerata come il suo strumento più efficace. C’è, però, un’altra rappresentazione che voglio farti vedere. La ritengo più significativa”.
  • “Quale?”.
  • “Questa in alto a destra e che ti sto indicando adesso. Essa attribuisce alla memoria due volti, una penna nella mano destra e nella sinistra un libro. Due volti perché è giusto che la memoria guardi indietro, alle cose passate, e avanti, alle cose che verranno (segno di prudenza); un libro e una penna in quanto la memoria deve perfezionarsi con l’uso, che consiste appunto nel leggere e nello scrivere”.
  • > Mi distraggo per attimo e mi domando fra me e me: la doppia faccia o l’ambivalenza dello sguardo sono oggi un pregio o un difetto?
  • “So a cosa stai pensando. Fai bene a sorridere. Anch’io non so chi oggi sarebbe disposto a vedere in un Giano bifronte la presenza di una virtù. Ma i tempi cambiano. E da tempo stiamo vivendo il lungo processo che ha privato la memoria della sua dimensione oggettiva; spostandola nella sfera interiore, dove soltanto essa può riacquistare valore, dando un significato a ciò che si è perduto o è assente”.
  • “Professore, mi aiuti a capire”.
  • “Tutta la letteratura del ‘900 è percorsa da una ricerca di significato attraverso i labirinti della memoria, nel mare angoscioso che si distende tra perdita e risarcimento. I grandi narratori ne hanno scandagliato meglio di ogni altro le profondità. Per Joyce, ad esempio, la memoria è percezione dell’infinita moltiplicazione della realtà esistenziale. Per Proust, invece, la memoria è un lungo viaggio interiore per ricostruire il nesso spezzato tra individuo e realtà, per cogliere oltre la superficie i messaggi delle cose. La visione di Musil è più pessimistica: la società contemporanea manca di contenuto e di storia; la memoria, pertanto, è un gioco tragico della ragione strozzata; una specie di matematica astratta di elementi simbolici. Anche per Borges la memoria è una sorta di gioco combinatorio: la realtà è un artificio; anzi, l’unica realtà è quella artificiale e la memoria è il filo di Arianna che consente l’esercizio magico della parola, il divagare ironico dell’immaginazione, le avventure della fantasia. Ti sei stancato?”.
  • “No. La prego, continui”.
  • “Gadda intendeva la memoria come male incurabile e solitaria, personalissima, individualissima cognizione del dolore; García Márquez, invece, come la zattera di mille naufraghi che serve per traghettare le tragedie del mondo sudamericano nell’epopea surreale del mito; in ogni caso la memoria si iscrive oggi dentro il perimetro delle emozioni, disegnato dal sentimento dell’assenza e dell’inafferrabiltà del reale”.
  • “Dov’è la certezza, allora?”
  • “La memoria di oggi, a differenza della memoria di ieri, purtroppo, non è possesso e non è certezza: è una dimensione frantumata e lacerata dell’essere, la ricerca d’una faticosa ricomposizione della coscienza”.
  • “Professore, mi permetto di sintetizzare il passaggio storico che lei descrive con questa formula: man mano che la memoria si è interiorizzata, essa ha cessato di essere strumento di produzione e di trasmissione del sapere. Giusto?”.
  • “Sì. Nella storiografia e nella filosofia (per non dire nella psicanalisi) il dimenticare è considerato un presupposto essenziale per la crescita dell’individuo, del pensiero, della società. Anche senza ascoltare il consiglio dei filosofi, scienziati e tecnici fanno largo uso della dimenticanza nelle loro pratiche. La nuova edizione di un manuale, ad esempio, rende inservibile la precedente, destinata a giacere senza fortuna chissà dove. Collezioni intere di riviste e trattati, che hanno seguito con accortezza un movimento normativo, spariscono dall’orizzonte per l’entrata in vigore di nuovi provvedimenti”.
  • “Questa cosa, però, mi terrorizza: applicando ciò che dice sul piano dell’agire politico o amministrativo, quale via di salvezza è possibile immaginare?”.
  • “Una via di salvezza c’è. Considerata come una struttura culturale profonda dell’antropologia occidentale scopriamo almeno due profili della memoria, la memoria del singolo individuo e la memoria del gruppo, della comunità; ovverosia la memoria individuale e quella collettiva. I due aspetti interagiscono fra loro e rendono la memoria uno strumento costitutivo dell’identità”.
  • “Professore, facendo mie le sue parole, dovrei dire di aspettare con ansia ogni appuntamento elettorale”.
  • “Perché?”.
  • “Per capire finalmente in quale storia collettiva si trasformerà la memoria individuale di ciascuno di noi, singoli elettori! E poi raccontarla a chi verrà dopo”.
  • “Può essere senz’altro una soddisfazione intellettuale. Nel frattempo fai bene a protestare. Ricordalo tu e dillo sempre a tutti, anche a chi non ti capirà: il ricordo si costruisce mediante il linguaggio. Dopodiché esso viene elaborato e codificato attraverso le rappresentazioni di un gruppo sociale e soltanto così ne forma il principio di coesione. Dunque, facciamo molta attenzione alle parole che si scelgono per dire una cosa, qualunque cosa. Perché tutto parte da lì, dalle parole.”

                                                                                                   

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Il dialogo sopra riportato è frutto dell’immaginazione. Si tratta di un omaggio ad Aldo Mazzacane, Maestro d’università, morto il 28 febbraio  2016. In occasione del quarto anniversario della sua scomparsa ho deciso di proporre, in questa forma bizzarra, la lettura di alcune sue pagine tratte da I giuristi e la memoria, in Filosofia e storia della cultura, a cura di Giuseppe Cacciatore, Maurizio Martirano, Edoardo Massimilla, v. III (Teoria e metodo), pp. 111-135. Sono convinto che non me ne vorrà [Ahi! Che non me ne avrebbe voluto].