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V’è Cicerone e Cicerone, l’importante è distinguere

Correva l’anno 64 a.C. e Marco Tullio Cicerone, impegnato nella “gara” per il consolato di Roma, ricevette una lunga epistola a lui indirizzata dal fratello minore, Quinto Tullio Cicerone. Questi – secondo la tradizione – ritenne opportuno fissare su carta, quale utile promemoria, le strategie considerate indispensabili per sbaragliare gli avversari politici e vincere una faticosa campagna elettorale.

Un’elegante traduzione del manualetto elettorale di Quinto Cicerone, curata da Francesco Lucrezi (Napoli, 2001), ci permette di apprendere e conoscere da vicino i principali suggerimenti forniti dall’autore: procurarsi il maggior numero di amici, assicurarsene la fedeltà, guadagnarsene la riconoscenza, sollecitarne l’impegno, promettere favori di ogni tipo, non dire mai di no, non scontentare mai nessuno, ricorrere senza pudore alla simulazione e all’adulazione. Si precisa infatti che non bisogna avere particolari scrupoli: preoccuparsi, ad esempio, che le promesse dispensate non potranno mai essere mantenute; dopotutto, si constata con freddezza, quelli che chiederanno un futuro favore saranno molto più numerosi di quanti poi se ne gioveranno effettivamente. Non solo. Si spiega pure che normalmente gli “elettori” si arrabbiano di più con chi responsabilmente rifiuta di promettere un servizio impossibile e non tanto con coloro che appaiono semplicemente impediti a mantenere una promessa fatta con estrema superficialità.

Come si vede, si tratta di consigli a dir poco spregiudicati (anche secondo la morale dell’epoca); consigli comunque da non sottovalutare da parte di chi nutriva il desiderio di “conquistare” Roma. Senza dimenticare ciò che Roma era diventata: una città abitata da invidie, inganni e arroganza; da superbia, odio e vizi di ogni genere.

Del “manuale elettorale” in parola mi colpisce non tanto il fatto che esso riesca a mettere a nudo il nocciolo duro della politica, le cui strategie talvolta possono essere rese aspre e sgradevoli da determinate contingenze; quanto piuttosto la testimonianza offerta dallo stesso testo circa la “doppia morale” che spesso si è costretti a vivere (ahimè, non sempre controvoglia).

Il riferimento in particolare è alla rappresentazione del sentimento dell’amicizia guardata in ordine alla politica. Gli amici di cui Quinto Cicerone parla, infatti, e di cui i politici amano circondarsi, sono uomini interessati, cultori dell’utilità personale. Allo stesso modo, il metodo indicato perché un politico possa acquisire amici passa attraverso il mero calcolo, lo scambio di favori, il vantaggio reciproco; si forma e assume consistenza attraverso una delle consuetudini più antiche: la promessa di un beneficio, vero o presunto… non importa. D’altra parte, se in politica la sincerità viene sostituita dalla simulazione e la spontaneità dall’adulazione, l’unica cosa che permette all’amicizia di essere elemento di coesione è la pretesa di un vantaggio personale.

Orbene, credo che nessuno trascuri il fatto che l’altro Cicerone, Marco Tullio, sia stato autore anch’egli di un trattato sull’amicizia, intesa però molto diversamente. Mi riferisco alle bellissime pagine in cui il famoso oratore romano racconta di come è impossibile pretendere od ottenere dagli amici cose disoneste o disonorevoli; mi riferisco al piacevolissimo dialogo per mezzo del quale si spiega come l’affetto, la benevolenza e la spiritualità insite nell’amicizia nulla hanno a che vedere con qualsiasi forma di finzione, di calcolo o di remunerazione.

Le due opere citate, dunque, rappresentano – per dirla ancora con le parole di Lucrezi – i poli opposti fra i quali si snoda la complessa realtà concettuale dell’amicizia antica, alla cui ricchezza e ambiguità di senso o di significato esse hanno dato un contributo notevole, lasciandolo in eredità alla nostra interpretazione.

Ma v’è di più. Non si può fare a meno di sottolineare una cosa evidente, anche se di dubbio conforto. Ci si domanda: in quale momento Marco Tullio Cicerone riuscì a sovvertire la prospettiva utilitaristica avanzata dal fratello? Soltanto molti anni dopo il ricevimento della spregiudicata missiva, allorquando, allontanato forzatamente dall’agone politico, egli si dedicò alla riflessione, ovvero alla compilazione delle sue opere cosiddette filosofiche.

E ciò, storicamente, vorrà pur significare qualcosa!

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