Nel cuore della Storia: Giuseppe Lupo colpisce ancora!
Con un romanzo che sa catturare il lettore fin dalle prime pagine (Storia d’amore e macchine da scrivere, Marsilio 2025), Giuseppe Lupo ci invita ad un viaggio emozionante e riflessivo. Con il suo stile inconfondibile, Lupo riesce ancora una volta a tessere una narrazione che emoziona, coinvolge e spinge alla riflessione, confermando la sua maestria nel raccontare storie che sanno parlare tanto al cuore quanto alla nostra coscienza.
L’incipit
Salante Fossi, inviato del Modern Times, raggiunge Skagen sulla punta estrema della Danimarca. Sono riuniti lì gli esponenti dell’informatica mondiale per celebrare i novantacinque anni del Vecchio Cibernetico, personaggio che ha all’attivo numerose scoperte ed invenzioni e che il mondo scientifico dà come prossimo vincitore del Premio Nobel: si aspetta infatti con ansia l’annuncio dell’ultima sua sensazionale scoperta che – si vocifera – sconvolgerà davvero l’umanità. Non una macchina, bensì una neo-rivoluzione copernicana che sarà svelata in conclusione di romanzo, aprendo la strada ad un dilemma etico che i protagonisti delle ultime pagine (Salante Fossi, il Vecchio Cibernetico e la sua assistente di vita, la governante Augustina De Pineiro) sapranno risolvere ciascuno a suo modo.
Qwerty
Salante Fossi, di radici fenicie ovvero sarde, è a Skagen con l’obiettivo primario di ottenere dal Vecchio Cibernetico un’intervista rivelatrice in ordine all’ultima invenzione di cui si parla, pubblicizzata quale frontiera inaspettata della scienza informatica. Questa, tuttavia, è stata paradossalmente battezzata dal suo unico ideatore con un appellativo classico, quello di Qwerty. Si tratta del più comune schema per tastiere, il cui nome deriva dalla sequenza delle lettere dei primi sei tasti della riga superiore della stessa tastiera: uno schema risalente al XIX secolo, brevettato nel 1864 da Christopher Sholes e venduto alla Remington and Sons nel 1873. Di questa origine di Qwerty, nel romanzo, che ha un taglio storico, di storia contemporanea, si dà brevemente conto nel Capitolo contrassegnato dalla lettera K.
Le illustrazioni di Lorenzo Fossati
Caratteristica formale del libro, infatti, vuole che i capitoli siano indicati con la sequenza di lettere che è dato trovare sulle tastiere organizzate in base alla lingua ungherese, nella prima parte, e in base allo schema qwerty, nella seconda parte; lettere mai lasciate sole, accompagnate come sono dalle illustrazioni del filosofo Lorenzo Fossati: disegni che è possibile comprendere ed apprezzare nel pieno del loro valore e significato solo dopo la lettura del capitolo al quale proprio i disegni introducono attraverso meditati segni interpretativi.
Il Vecchio Cibernetico
Salante Fossi è convinto di incontrare un anziano signore al tramonto della vita; si troverà di fronte invece un flemmatico ingegnere che passa da un argomento all’altro (come l’ape sui fiori), bizzarro nell’abbigliamento (camicia a righe larghissime, berretto da marinaio, rametto di liquerizia che gli pende dalle labbra), pronto ad alte disquisizioni filosofiche (sul tempo o sulla modernità); somigliante a Walter Benjamin, il Vecchio Cibernetico è una mente lucida, lucidissima, che traduce tutto in numeri corrispondenti ad astrusi conteggi; eppure vi sono due dettagli dissonanti: il Vecchio Cibernetico chiede insistentemente quale sia il giorno della conversazione (dovendoglisi quindi ricordare di continuo la ricorrenza della festa di compleanno che ha radunato tutti a Skagen); altrettanto, egli chiede in continuazione della moglie, del perché della sua assenza o dei suoi ritardi (la moglie del Vecchio Cibernetico, Ann Lee, è morta da dieci anni ma il marito la crede ancora in vita).
Camminare sui confini
Il Vecchio Cibernetico – precisa la penna di Giuseppe Lupo – ama stare sui bordi, sui margini, sui confini visibili. La città di Skagen, dove il Mar Baltico e il Mare del Nord si toccano senza mescolarsi, assume nel libro il sapore di una metafora, indicando i lembi di ferite forse insanabili. Ugualmente può dirsi per altre immagini simili su cui l’autore torna a più riprese: la linea di nebbia, ad esempio, che traccia un muro immaginario tra l’ultimo lembo di terra del Portogallo e l’inizio dell’Atlantico; e accanto ad un muro immaginario un muro reale, il Muro di Berlino, frontiera tra Oriente ed Occidente, che il Vecchio Cibernetico si troverà ad oltrepassare – con esiti ovviamente diversi – prima e dopo la sua caduta.
Che il romanzo di Giuseppe Lupo sia un libro di geografia è stato ribadito in diverse sedi. Definizione – bisogna ammettere – appropriatissima, purché la parola venga declinata al plurale: libro di geografie fisiche ed interiori, geografia dei luoghi, geografia degli affetti e dei sentimenti, geografia degli odori e della musica, geografia di nomi e identità, geografia di parole ma anche di silenzi.
Cercherò di procedere seguendo quest’ordine.
Geografia dei luoghi
La geografia dei luoghi – lo si dice espressamente nel testo – è l’odissea dentro un secolo, una partita a scacchi contro gli imprevisti della storia; passare da un capo all’altro dell’Europa significa sì attraversare decenni, ma farlo come se si stesse saltellando sulla tastiera di una macchina da scrivere dove ad ogni singola lettera corrisponde un’epoca, una città, una stagione variamente caratterizzata.
Il luogo di partenza è Bástya utca, una stradina del tutto secondaria nel cuore di Budapest, luogo di nascita e di residenza del Vecchio Cibernetico che ha imparato a convivere con il continuo andirivieni di avventori, essendo il suo palazzo un “palazzo di baci”, sede cioè di una casa di appuntamenti. In questa stradina, di ritorno dall’Università, agli inizi del novembre del 1956, quando i giornali annunciano l’invasione russa dell’Ungheria e di Budapest, il Vecchio Cibernetico sarà misteriosamente prelevato da quattro uomini, senza che gli si dica nulla e senza che gli si dia tempo di salire a casa e salutare la famiglia. L’ultima straziante immagine che gli rimarrà impressa nella memoria sarà quella di Magrit, la sorellina di cinque anni, che saltellava con un solo piede in un reticolo di linee tracciate sopra le basole con un pezzettino di gesso bianco.
Bástya utca – trascrivo le parole di Lupo – ha tutte le fattezze della soglia di un luogo destinato a cambiare le sorti del mondo. Non a caso il Vecchio Cibernetico, quando ne parla, arricchisce la descrizione di particolari che hanno poca attinenza con l’invenzione di Qwerty: gli odori delle erbe, gli spicchi di cielo tra una grondaia e l’altra, l’acqua piovana nei pluviali, le inferriate ai finestroni. Questo perché Bástya utca è in realtà un grumo della memoria, il posto cui il Vecchio Cibernetico tiene maggiormente, non perché vi sia nato nel giorno piovoso di un anno in mezzo alle due guerre mondiali, semplicemente perché è l’ultima cartolina della sua geografia familiare alla vigilia del passaggio in Occidente.
Partendo dunque da Bástya utca, è possibile tracciare una pluralità di itinerari.
Un primo itinerario, ad esempio, va da Budapest ad Amburgo, da Amburgo a Calais, da Calais a Dover e da qui alla capitale del Regno britannico: è il viaggio che il Vecchio Cibernatico, laureatosi giovanissimo – all’età di 22 anni – presso la Facoltà di Tecnologia ed economia di Budapest, compie per andare all’Università di Londra dove è stato convocato dal prof. Dennis Gabor, personaggio realmente esistito, vincitore del Nobel per la fisica, dovendosi a lui l’invenzione dell’olografia.
Un altro itinerario, il principale invero, filo rosso dell’intero racconto, segue queste tappe: Budapest, il cimitero ebraico di Praga, il viaggio sulla Moldava, l’Elba, Amburgo, Ivrea, Palo Alto. Si tratta dell’itinerario della fuga, che assomiglia nelle inquietudini del protagonista ad una amara diserzione oppure al percorso che si fa compiere di notte ad un ostaggio.
Per ogni tappa, Giuseppe Lupo offre descrizioni che si imprimono nella mente. Di Ivrea, ad esempio, si dirà che essa assomigliava ad un concerto di martelletti, una grande orchestra di parole discese su fogli di carta.
Geografia di nomi ed identità
Fra questi luoghi si dipana un groviglio di nomi e identità. Nel cimitero ebraico di Praga il Vecchio Cibernetico incontrerà Katalin, una moglie sotto copertura che l’accompagnerà in un fittizio viaggio di nozze lungo la Moldava per arrivare indenni all’Elba, quindi ad Amburgo. Qui Katalin, “leggera come una sillaba e completa come una frase”, perderà le sue vesti fittizie per divenire Ann Lee, moglie reale del Vecchio Cibernetico, seguendo di questi però il cambio di identità. Il Vecchio Cibernetico, infatti, al secolo Sandór Molnár, sarà in seguito Franz Löw e Balthazarr Hirschmann: tre nomi che si ricongiungeranno ad Ivrea.
Geografia della musica e degli odori
Il libro non manca di colonna sonora. Nelle pagine del romanzo si incontreranno il boogie-woogie (quale simbolo di libertà), il suono del violino (unico legame di Katalin/Ann Lee con la sua terribile infanzia) e il sax di John Coltrane (sulle cui note i coniugi Hirschmann non smetterebbero mai di danzare).
Lo stesso può dirsi per gli odori. Il viaggio verso Londra, e il lettore scoprirà il perché, avrà l’odore del rosmarino, il giorno della laurea quello della camomilla, il ricordo di Margit invece l’odore della lavanda.
Geografia degli affetti
“Geografia familiare” è un’espressione che si trova utilizzata nel testo e, in effetti, l’autore ne fa un asse portante. Giuseppe Lupo descrive nei dettagli il legame spezzato del Vecchio Cibernetico con la sua famiglia (che di fatto non rivedrà da quel lontano novembre del 1956), ritraendone – sotto forma di essenza spirituale – i singoli componenti: il padre ombrellaio, la madre che discende da commercianti di granaglie e soprattutto le due sorelle, Ezster e la piccola Margit cui il Vecchio Cibernetico rivolge lettere struggenti, lettere indirizzate a sé stesso, destinate ad essere lette e rilette, ma in effetti mai recapitate.
Accanto agli affetti familiari, tuttavia, ve ne sono altri. Si è detto della moglie Ann Lee, ma andrebbero citati Adriano Olivetti e gli uomini che contribuirono a dare corpo al suo genio visionario, a cominciare da Mario Tchou (il romanzo, sotto questo aspetto, è un romanzo post-olivettiano a tutti gli effetti); andrebbe citato di nuovo Dennis Gabor, il professore incontrato a Londra: fu lui a regalare al Vecchio Cibernetico la Lettera 22, l’iconica macchina per scrivere che Adriano Olivetti ideò nel 1951 per il mercato americano e che il Vecchio Cibernetico aveva imparato ad utilizzare giovanissimo grazie ad un corso improvvisato di dattilografia tenuto da un infermiere che sarà scoperto poi quale componente della polizia politica.
Ciò consente di sottolineare un ulteriore dettaglio: il legame affettivo di cui si discute non riguarda solo le persone. Si è già visto che esso riguarda anche e non meno i luoghi, ma accanto a questi vi sono le cose. Basterà dire a tal riguardo che la Lettera 22 è la co-protagonista del libro, il cimelio che il Vecchio Cibernetico porta sempre con sé. Leggenda vuole che egli non se ne sia mai separato da oltre settant’anni, dal giorno in cui ha lasciato Budapest. Scrigno, la sua custodia di cuoio, di infinite carte. Quasi una borsa di Mary Poppins. Tra i reperti più preziosi, un numero imprecisato di missive che il Vecchio Cibernetico definisce “calvario sulle tastiere”.
Geografia delle parole e dei silenzi
“Calvario sulle tastiere” (come “grumi della memoria”, “gomitoli di parole”) è una delle tante espressioni emblematiche che si trovano disseminate nel testo e che sintetizzano, al pari dei disegni di Lorenzo Fossati, la filosofia che è alla base di Qwerty, senza la quale Qwerty non esisterebbe neppure nelle forme misteriose dell’invenzione che il Vecchio Cibernetico tiene chiusa a chiave nella sua dimora in Portogallo, in una stanza collocata nel mezzo di altre due: l’una piena di violini (legame con Ann Lee), l’altra piena di vocabolari storici (simboli codificatori del linguaggio parlato e scritto).
Andava discettando il Vecchio Cibernetico: se è vero che il linguaggio è l’immagine del mondo, secondo quanto insegnato da Wittgenstein, potrebbe accadere o ritenersi che la disposizione delle lettere sulla tastiera non debba necessariamente seguire le regole della consequenzialità, agevolandosi semplicemente la scrittura meccanica per intuizione di Sholes, ma rispettare una sorta di armonia involontaria, una fisiognomica dell’alfabeto dedotta sulla base della disposizione delle lettere sulla tastiera qwerty. È qui che la geografia delle lettere si trasforma nella geografia delle mani, che le mani cioè vanno disegnando sui tasti; ed è qui che le lettere condividono il proprio spazio occupato sulla tastiera con le zone intermedie che le dividono e le uniscono al tempo stesso, il reticolato, la geografia stradale che le tiene separate eppur insieme, come i mari di Skagen.
Ancora una volta ci si trova a camminare sui bordi: da un lato le parole, dall’altro lato i silenzi. Precisa l’autore: ognuno di noi nasconde un “gomitolo di parole” destinate a non essere pronunciate, ferme tra la gola e il cuore, in quella regione del corpo dove il sangue fatica a trovare la strada.
Fermarsi ad ascoltare
È una fortuna per il lettore che l’intervista di Salante Fossi abbia preso questa piega. Se in pratica l’intervista mirava a soddisfare bisogni immediati di conoscenza (cos’è qwerty, da dove nasce e in cosa consiste), essa si è trasformata nel racconto di una storia nella Storia; ed è una fortuna per il lettore che la caparbietà del Vecchio Cibernetico abbia saputo trasformare spesso l’intervistatore in intervistato, costretto dunque a fare i conti con la sua coscienza, raccontando della sua infanzia, di suo padre, del negozio Olivetti che questi gestiva, del rapporto paterno con Mario Tchou, dei “papassini” duri e bianchi da sembrare fantasmi zuccherati.
È una fortuna in quanto il lettore può con Salante Fossi fermarsi, porsi degli interrogativi etici e ripetere a sé stesso: questo forse è troppo! Può con Salante Fossi fermarsi al faro di Cabo da Roca, osservare la linea frastagliata della costa e ascoltare… ascoltare nient’altro che il vento e il mare.
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L’incontro con Giuseppe Lupo si è svolto presso la Biblioteca comunale di Benevento il 6 marzo nell’ambito della rassegna “Benevento LibrAria”.