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Il contributo del Law and Literature allo studio della cultura giuridica italiana dell’Ottocento

Ecco un saggio iniziale, prima tappa di un percorso fatto di tre momenti, per continuare un dialogo interrotto con Aldo Mazzacane in merito all’applicazione del Law and Literature Movement sul terreno storico dell’Ottocento giuridico italiano. L’indimenticato Maestro, tra i primi cultori delle tendenze giusletterarie in Italia, riteneva paradossale che da noi la storia giuridica avesse rinunciato a coltivare i diversi aspetti del movimento in questione che, organizzatosi nel frattempo in termini di “scuola”, è stato lasciato al dominio pressoché esclusivo della filosofia del diritto o dei giuristi positivi.

Ha forse pesato su ciò una certa autoreferenzialità disciplinare. Più esattamente. Lo storico del diritto, sapendo che la coppia diritto/letteratura è un elemento strutturale della propria disciplina, l’ha considerata come un dato normale, naturale, quasi scontato, e perciò non meritevole di speciali sottolineature. Altrettanto scontata e banale, però, è l’osservazione secondo cui il valore di una “cosa” è solito rivelarsi in tutta la sua consistenza solo allorquando se ne accusi la perdita o lo smarrimento. Pertanto, se negli ultimi anni il Law and Literature Movement è stato in grado di trasformare letterati, sociologi, filosofi, comparatisti e giuristi positivi in accorti storici del diritto, è pur vero che questi ultimi non sono stati scelti o individuati quali interlocutori privilegiati.

A questa difficoltà esterna di riconoscimento, poi, se ne è aggiunta un’altra di ricerca e di metodo, tutta interna al discorso storico-giuridico. In tale ambito, infatti, se non si è mancato di proiettare sull’antico regime modelli teorico-normativi tipicamente ottocenteschi, più raramente è avvenuto il contrario: interrogarsi cioè sulla sopravvivenza ottocentesca dei modelli di antico regime, sulle eredità che il diritto comune ha lasciato al secolo dei codici e della pandettistica, ivi compreso il binomio “diritto e letteratura” scisso in nome di una ricercata specializzazione dei saperi.

Sotto questo aspetto, il presente studio assume le forme e i caratteri quasi di un esperimento.

Il motivo ispiratore è racchiuso in un’autorevolissima dedica: “A’ suoi compagni / di sventura e di fede / dal profondo del suo carcere / l’autore / indirizza questi versi / ne’ quali il comune dolore / è offerto in olocausto / all’umano pensiero”.

Sono le parole con le quali Francesco De Sanctis iniziò un suo poemetto scritto il 21 febbraio 1851, poco dopo essere stato rinchiuso nella prigione napoletana di Castel dell’Ovo. Nella successiva introduzione in prosa il “temuto cospiratore” specificava il significato dei suoi concetti-chiave, su cui è opportuno soffermarsi almeno per un attimo: quelli di “comune dolore”, di “olocausto” e di “umano pensiero”.

“La storia del pensiero umano – precisava De Sanctis – è insieme la storia dell’umano dolore, l’una cosa non separabile dall’altra: ogni passo innanzi è detto ribellione o peccato, e si espia col martirio”.

Esisteva, quindi, un cammino circolare portato a legare – tanto virtuosamente quanto inscindibilmente – la storia dell’uomo alla storia del suo pensiero. Infatti, secondo lo schema desanctisiano, al progresso del pensiero umano contribuiva chi, pretendendo di compiere importanti passi in avanti – qualificati di volta in volta come atti di ribellione o di peccato – pagava col martirio le proprie scelte, offrendo se stesso in olocausto, non per orgoglio, ma per alimentare di continuo il lato positivo del dolore e della sofferenza, su cui l’umanità stessa poggiava le sue sorti comuni e progressive. Di qui la scoperta del segreto che rivestiva il mondo di dignità: là dove gli individui soffrono, offrendo la propria sofferenza alle generazioni future, lì il pensiero si sublima rendendo vincente l’umanità.

In pratica, segregato in carcere, l’illustre letterato attraverso lo strumento della poesia vagheggiava la costruzione di un nuovo “edificio del pensiero”, il quale – perché potesse essere considerato “compiuto e concorde in tutte le sue parti” – doveva fondarsi su determinati principi e valori, elevati al rango di sentimenti. Non solo il dolore, per la verità; dopotutto i versi del De Sanctis finiscono con l’incrociare i temi della libertà, della famiglia, della beltà e dell’amore: un meditato “programma culturale” sottoscritto dal mondo intellettuale del primo romanticismo italiano, incluso il mondo dei giuristi, destinato però a cambiare sembianze quando si sarebbero lasciate alle spalle le lotte risorgimentali.

Ecco allora che il legame tra pensiero e sentimento, nel passaggio dal romanticismo al positivismo, costituisce il motivo ispiratore del nostro scritto; un motivo la cui riscoperta si è soliti attribuire alla cosiddetta “rivoluzione realista statunitense” e, con essa, al Law and Literature Movement.

Va detto, tuttavia, che l’enfasi posta su questo dato (il realismo giuridico americano) ha portato nel tempo a dimenticare le radici europee di quel movimento. La denuncia, ad esempio, circa il carattere artificiale delle costruzioni logiche, a vantaggio di una visione pragmatica del diritto, appartenne negli ultimi decenni del XIX secolo a Rudolf von Jhering e dopo di lui all’Ehrlich, al Kantorowicz così come in Francia a François Gény. E altri autori si potrebbero enumerare ancora, tutti impegnati nella dimostrazione delle conseguenze derivanti da una irreversibile perdita di fiducia nell’oggettività e nella razionalità. Con uno scopo ben preciso: agevolare il sospirato ritorno del diritto alla realtà.

L’Ottocento italiano non fu estraneo a tale obiettivo. Qui di seguito, dunque, ne valuteremo la portata e lo faremo seguendo una prospettiva tipicamente giusletteraria, storica e storiografica insieme.

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Si riporta qui l’introduzione ad un mio studio di prossima pubblicazione.

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