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Parte IV / Riflessioni su Madrigale senza suono, il nuovo romanzo di Andrea Tarabbia

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9. Personaggi in chiaroscuro: Caravaggio, Tasso, Staibano e una galleria immensa di tipi e figure

L’alternarsi di luci e ombre trova un paradigma perfetto nella discussione sull’arte che Carlo Gesualdo intreccerà con Caravaggio, interessato egli all’acquisto di un suo quadro raffigurante il Cristo Salvatore. E accanto al pittore una galleria immensa di personaggi, elevati volentieri al rango di tipi e figure, tratteggiati in chiaroscuro. Così è per Torquato Tasso, ad esempio, che Gesualdo è disposto finanche a mettere in imbarazzo, se non altro per rabbia intellettuale: i madrigali che il poeta offre al principe – per essere musicati – sono troppo distanti dai suoi versi migliori, che al contrario Carlo Gesualdo giudica assai efficaci nel pronunciare con naturalezza ogni tipo di sofferenza umana.

Ovviamente, non solo personaggi noti. Un cameo Tarabbia lo realizza con la figura di Staibano, curatore personale del principe. Attraverso Staibano l’autore ci rende partecipi di uno spaccato della storia rinascimentale della medicina, sospeso come il medico è tra Galeno e Vesalio, difensore convinto dei metodi scientifici contro il dilagare di pratiche magiche, anche nella cura di quella terribile forma di melanconia che non risparmiò la fragile Leonora (provata dalla morte del figlio Alfonsino, offesa da Aurelia, amante del marito e controfigura della bella Maria d’Avalos, e di fatto ripudiata dal figliastro Emanuele). E poi i cardinali Alessandro d’Este e Alfonso Gesualdo, i musici Alfonso Fontanelli e Pietro Cappuccio, il servitore Pietro Maliziale detto Bardotti, l’abate Adinolfo, fino ad arrivare al popolo senza nome, fatto di monaci, liutai, contadini, sudditi che partecipano alle celebrazioni della Settimana Santa del 1611 in cui risuonano i responsoria gesualdiani (anticipati – va detto – da una spiegazione di straordinaria bellezza – tecnica e poetica al tempo stesso – che Tarabbia fa della composizione di Plange quasi virgo, il terzo responsorio del Sabato santo).

10. Quale Gesualdo?

Arrivati a questo punto, la domanda è d’obbligo: quale immagine di Carlo Gesualdo restituisce il romanzo di Tarabbia?

Giunto al termine dei suoi anni, confida il principe alla sua ombra: “Non ho nemici”, dice (dopotutto anche il risentimento dei d’Avalos e dei Carafa si era definitivamente attenuato). “I miei feudi – aggiunge – sono attraversati da inquietudini ordinarie. Sono un buon amministratore, accorto, onesto nella redistribuzione dei guadagni [l’autore ha letto con attenzione il testamento di Carlo Gesualdo]. Sono severo, ma c’è giustizia nelle mie terre. Raramente i miei sudditi mi vedono, mai si ribellano, e dalle curie di Roma e Milano mi arrivano carezze”.

Dove si nasconde allora la minaccia? “A volte – risponde Carlo – le minacce non vengono da lontano, da nemici esterni” (come credette quando, dopo il truce fatto di sangue, fece disboscare una collina dinanzi al suo castello irpino per meglio esplorare gli orizzonti ed evitare di rimanere vittima di una legale vendetta). “La minaccia giunge da un demone [rectius: Ignazio] che abbiamo e che possiede chi ci sta accanto, e che ci frolla l’anima per insidiarvisi, e masticarla”.

Un demone dunque che impedisce di cancellare dalla coscienza il peso delle azioni, che lo aumenta a dismisura opponendo all’odio e al rancore la memoria di immagini innocenti, munite di struggente purezza (come il guanto bianco che Maria d’Avalos, bambina, offre in pegno al cugino Carlo); un demone che non permette di levarsi di dosso l’odore famelico di lupa (che è sedimento in attesa di germoglio, se ricorda la passione per una donna amata sopra tutte; ma è anche lacerazione, tormento, strazio, dolore, afflizione, pena e turbamento insieme, se ricorda l’odore della pelle di lupo che si è stati costretti ad indossare la notte dell’eccidio, per confondersi e agire indisturbati in nome di un onore rubato); un demone, ancora, che instilla la convinzione di essere stati causa di sofferenze altrui (di una moglie sradicata da Ferrara, di un’amante troppo rassomigliante a Maria, di un figlio cui non si è dimostrato il reale amore); un demone che frantuma i molteplici aspetti di una poliedrica personalità (quella del mecenate che si è impegnato nella costruzione di chiese e conventi, nella committenza di tele votive, nell’acquisto di reliquie sacre, nel sostentamento di ordini religiosi; quella dell’uomo di fede che segue alla lettera le pratiche di espiazione ritenute idonee a mutare la sofferenza fisica in uno strumento di purificazione dell’anima e di sollevamento della coscienza; quella del musico che riversa  nelle sue opere la carica emotiva del suo malessere e la offre agli uomini, innalzando poi lodi a Dio); un demone che rischia di annullare – al momento della morte – l’ultima ragione di vita, la musica appunto, infangandola addirittura nel suo valore o significato, per cui ci si lascia andare a suoni lunghi e tirati, stridenti e fastidiosi: agonia o composizione estrema di un libro settimo di madrigali? Chissà! Certo, se l’ombra di Ardytti conforta, ricordando al principe compositore che l’ultimo di una dinastia sarà anche il primo di una nuova generazione di musici, il demone interiore non demorde, non allenta la presa e fa sorgere l’ultimo dubbio: “che senso ha vivere una vita affollata di suoni e musiche e canti, e non riuscire a ricordare il timbro di una voce?”

In questo modo Tarabbia, lo si diceva sopra, riconcilia gli opposti: l’arte del Gesualdo, accanto al suo tecnicismo, nasconde una precisa tavola di valori, di idee e sentimenti, che sono stati riconosciuti alla base di una desiderata rivoluzione. Questo tuttavia è evidente a noi, uomini dell’oggi, ma non necessariamente al diretto interessato, perché – spiega Tarabbia – il demone morale, recondito, nascosto nella profondità dell’anima, che “vive incistato nel corpo e nella mente”, ad un tratto può spezzare la catena cui è stato tenuto a lungo legato, venirci accanto e farci credere che il mondo sognato, quello per cui si è lottato, quello di cui si voleva far parte, in verità non ci appartiene, non ci riconosce e non ci accoglie, respingendoci infine negli abissi della nostra interiorità. (Riproduzione riservata©).  [Continua > per andare alla Parte V > clicca qui].