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Non sempre le feste danno la felicità. Anzi

“Prendendo la parola e ringraziando per l’invito a partecipare a questo importante appuntamento, la prima cosa che sento il dovere di fare è ridurre – per così dire – le aspettative riconducibili al titolo scelto per il mio intervento.

Esso, più o meno esplicitamente, richiama alla memoria lo studio, intitolato La festa della Nazione, che Ilaria Porciani pubblicò nel 1997 nell’ambito del dibattito (tuttora in corso) sul processo di nazionalizzazione nostrano, prima e dopo l’unità. Lo studio della festa nazionale (la festa dello Statuto albertino dall’unità al primo conflitto mondiale) consentì all’autrice d’indagare molti dei processi sociali innescati dalla costruzione dello Stato unitario nonché dalle strategie di nazionalizzazione messe in campo dalle élites. Ad essere indagato, in altre parole, fu il ruolo giocato dalla festa nazionale nella costruzione di una “religione della patria” che fosse capace di “incanalare” le diverse realtà territoriali e culturali italiane nel processo di formazione dello Stato unitario. Avverto, dunque, che se in questa sede e in principio d’intervento mi piace far riferimento a tale studio, è soprattutto per la necessità di rimarcare la persistente o sostanziale assenza di simili temi – nonché della metodologia che li sorregge – nella storia del diritto in generale e in quella del diritto pubblico e costituzionale in particolare. Detto questo, però, mi affretto a sottolineare che il percorso di ricerca da me seguito è solo parzialmente coincidente con l’opera appena citata […]”.

1. Le feste rivoluzionarie francesi: rigenerazione o distruzione?

Sicuramente poco conosciuta è la circostanza secondo cui la radicale rottura sancita dalla Rivoluzione francese nei confronti di un secolare passato monarchico si tradusse in una colossale festa che a Parigi, dicono le cronache, durò quasi senza interruzione dal 1789 al 1794.

Molte feste del periodo rivoluzionario colpirono l’immaginario collettivo per la loro “terribile allegria”. Basti pensare al corteo che riportò a Parigi Luigi XVI, l’ultimo re assoluto per diritto divino, dove le teste mozzate della scorta reale, pendenti dalle picche della Guardia nazionale, precedevano un gran numero di carri pieni di grano, farina e tonnellate di vino.

I dirigenti francesi si sentirono presto allarmati da queste manifestazioni di gioia popolare, molto simili ai riti carnevaleschi, in cui si riconobbero infine feste di distruzione più che di rigenerazione. Si cercò allora di riportare all’ordine e alla moralità quegli eccessi che alcuni (Danton fra questi) paragonarono a vere e proprie orge. Non a caso fu attribuito al Comitato per la pubblica istruzione dell’Assemblea nazionale il compito di “calendarizzare” tutte le feste nazionali, le quali avrebbero dovuto rispondere al desiderio di Rousseau di promuovere l’educazione sociale e lo spirito comunitario. Non tutto, però, andò per il verso giusto.

2. Quale destino per la felicità?

Sul piano degli studi storici e sociali, ampiamente riconosciuto è il seguente assioma: il ricorso alla festa popolare, alla sua istituzione e calendarizzazione, oltre a costituire un’operazione classica di “costruzione del consenso”, è coinciso con l’interessante destino costituzionale della felicità. Si segua per un attimo il destino di questa parola nei testi costituzionali francesi del periodo rivoluzionario.

3. Felicità privata, felicità pubblica, felicità sociale

La Rivoluzione francese trasformò il diritto alla ricerca della felicità, di matrice americana, nel diritto vero e proprio alla felicità. A tal proposito, sarà sufficiente sottolineare che nella stesura definitiva della Dichiarazione dei diritti la felicità, anziché essere trattata in un articolo specifico, come pure si pensò di fare, fu inserita nel preambolo, giacché riconosciuta quale diritto naturale ed inalienabile dell’uomo. Essa rappresentava agli occhi dei rivoluzionari – più che un programma futuro – una cesura netta rispetto al passato, rispetto all’antico regime descritto insistentemente come “infelice”. Anche nel preambolo della successiva costituzione del 1791 si ripeté sostanzialmente quanto scritto nel 1789: che cioè i principi incontestabili della dichiarazione stessa dovevano servire al mantenimento della costituzione e della felicità di tutti.

Come si sa, tuttavia, il movimento girondino sarebbe stato presto superato. Infatti, nelle discussioni che precedettero la costituzione del 1793, nata sotto l’egemonia del Terrore e destinata a non entrare in vigore, la felicità perse tutto d’un tratto il suo carattere individuale. I diritti elencati non erano più quelli dell’uomo, ma quelli della società nel suo complesso. E in questo nuovo contesto la “felicità comune”, unita all’uguaglianza, veniva gerarchicamente posta al di sopra della libertà e della proprietà, coerentemente con il programma politico del gruppo giacobino. La parola felicità, dunque, sia pure entrata a far parte stabilmente del lessico politico, non ebbe più nulla a che fare con la tradizione illuministica, essendo diventata un valore repubblicano contrario al piacere individuale. Non dovendosi pertanto più parlare né di felicità privata né di felicità pubblica, bensì di “felicità sociale”, ben poteva questa felicità del popolo francese essere posta al centro dell’ultima delle 37 feste dell’anno fissate dal calendario repubblicano. L’unica felicità possibile, insomma, rimaneva quella “offerta” dal Comitato di salute pubblica al popolo e consisteva nell’essere liberi e tranquilli almeno un giorno all’anno!

4. Felicità: diritto o perenne ricerca?

Si tenga ben presente il passaggio: l’istituzione della “Festa della felicità” corrisponde esattamente alla scomparsa della felicità dalle leggi fondamentali dello Stato francese. La parola felicità, ebbe modo di sottolineare Robespierre, poteva essere utilmente bandita dalla scrittura costituzionale perché termine ormai abusato, distorto, strumentalizzato (e per questo pericoloso). E così fu: se nella costituzione del 1793 ancora era scritto che “scopo dei governi era la felicità sociale”, nella stesura definitiva della Costituzione dell’anno III (1795) la parola felicità non vi compariva più, in omaggio ad un’altra idea: per tornare alla difesa dei diritti dell’uomo occorreva riattivare una serie di garanzie della persona, che servivano a contenere la paura e ad impedire al male di ripresentarsi. Si trattò di una tendenza europea: anche nel progetto di Costituzione napoletana del 1799 la parola felicità soccombe dinanzi alla preoccupazione di costruire un meccanismo che legasse strettamente la proclamazione dei diritti inviolabili dell’uomo alla loro tutela costituzionale e giurisdizionale.

5. Falso consenso e sincera frustrazione

La storia spiega bene che le condizioni politiche, prima di ogni festa, sono fondamentali per soddisfare le aspirazioni di un popolo alla felicità; aspirazioni che possono dirsi ottimizzate, aggiungono ora le moderne neuroscienze, quanto più il singolo si vede coinvolto nella partecipazione alle decisioni pubbliche. In altre parole, quanto più il diritto alla partecipazione politica è esteso, tanto più aumentano il grado di soddisfazione, la fiducia e il senso di realizzazione. Se invece gli effetti della partecipazione pubblica non sono verificabili o vengono vanificati, diminuisce il grado di soddisfazione e aumentano le forme di frustrazione, dinanzi alle quali non v’è festa che tenga.

Insomma, se la politica tornasse a mettere il tema della felicità al centro della propria agenda di lavoro, riflettendo sulle molte opzioni suggerite dalla storia, con ogni probabilità s’imparerebbe a distinguere (finalmente) tra falso consenso e sincera frustrazione.

E tanti errori, sul piano anche della correttezza istituzionale, sarebbero sapientemente evitati, senza correre il rischio di doversi poi pentire.

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Il testo sopra riportato è parte dell’intervento intitolato Dalla festa alla cerimonia di Stato: la costruzione del consenso al tempo della Rivoluzione francese, svolto presso l’Aula Pessina del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Napoli “Federico II” in occasione delle Giornate di studio di Storia e Diritto costituzionale (VII seminario: Appello al popolo e democrazia: nuove forme plebiscitarie che sanno di antico?) organizzate da “Atelier 4 luglio – G.G. Floridia” in collaborazione con la stessa Università di Napoli “Federico II”. Sui paragrafi 3 e 4, invece, si cfr. A. Trampus, Il diritto alla felicità. Storia di un’idea, Roma-Bari, 2008.