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Parte III / Riflessioni su Madrigale senza suono, il nuovo romanzo di Andrea Tarabbia

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5. La riconciliazione degli opposti

Ogni tassello del romanzo, sia esso di natura storica o d’invenzione narrativa, muove in una direzione precisa: la “riconciliazione degli opposti”. Fino ad ora il risultato riduttivo e penalizzante raggiunto in letteratura è che non si è fatto altro che oscillare tra poli contrapposti, raccontandosi del principe madrigalista la genialità o l’inquietudine, l’efferatezza o il martirio, l’arte o la follia, il protagonismo o il vittimismo all’interno di un sistema familiare e sociale di volta in volta creato o subìto, a seconda della prospettiva adottata.

Madrigale senza suono, al contrario, si pone su un livello differente, si pone contro la pretesa di separare il corpo dalla mente, la fisicità dalla spiritualità di una singolare esperienza. Il superamento degli steccati, l’individuazione di nuovi orizzonti, la ridefinizione di spazi e confini sono gli ulteriori traguardi cui si mira. La traduzione più eloquente di siffatto pensiero avviene sul piano della musica, e non poteva essere altrimenti.

6. La mistica musicale

Per il tramite di un’esposizione – che si è definita più volte – speculare, Tarabbia fa sì che l’assenza di suono richiamata nel titolo del romanzo acquisti miglior valore nel momento stesso in cui la musica è resa protagonista di tutte le pagine del libro, sotto una pluralità di forme: come oggetto di discorsi, come strumento o mestiere, come simbolo, segno o pretesto relazionale.

Se, allora, l’esordio narrativo presenta un castello privo di qualsiasi fasto artistico, con un teatro muto, con una camera artistica (detta dello zembalo) ridotta a rifugio testamentario, dove anche i vestiti del principe – cadendo – non emettono suono, nello svolgimento successivo la musica funge praticamente da metro descrittivo: i corridoi del castello quindi appaiono come strumenti, il corpo del servitore un liuto rovesciato e Leonora può essere benissimo ripresa ferma e dritta come un archetto.

La musica inoltre è il terreno su cui si coltivano o maturano relazioni significative: saranno le note cantate con voce di basso da Carlo Gesualdo, tratte da un suo primo mottetto giovanile, col titolo profetico di Ne reminiscaris, Domine, delicta nostra / Perdona, o Signore, le nostre colpe, a far sorgere in Stefano Felis – tra i più importanti compositori meridionali dell’epoca – il desiderio di fargli da maestro; l’incontro ferrarese con Luzzasco Luzzaschi invece darà al principe – ormai compositore maturo – l’occasione di spiegare il nesso (per lui inscindibile) tra la parola e la musica; mentre Scipione Stella e Fabrizio Filomarino – anche questi protagonisti nella Napoli musicale di fine ‘500 e inizio ‘600 – saranno utilizzati da Gesualdo per spiegare in modo esemplare (a chi legge) il suo concetto – o forse si dovrebbe scrivere: il suo desiderio – di musica. Un desiderio confidato anche al liutaio Salvatorelli, quando gli si parlerà della necessità di costruire nuovi strumenti capaci di riflettere della musica ogni variazione, salto o vibrazione.

7. Radici letterarie di un’ispirazione musicale: gli anni del noviziato

La splendida lezione sulla “limitatezza dei suoni” e la “ricerca dei suoni possibili” attinge a piene mani alla rivoluzione dei corpi celesti di Copernico, al trattato sull’immortalità di Cardano e, più ancora, alla teoria degli infiniti mondi e infiniti cieli di Giordano Bruno.

Letture proibite, si direbbe, compiute accanto a quelle consentite di latino, retorica e teologia sui testi approvati da Sant’Ignazio; letture compiute negli anni del noviziato, allorquando Carlo Gesualdo – per diritto di maggiorasco vantato dal fratello Luigi – era proiettato verso un destino diverso dall’amministrazione feudale; letture compiute negli anni del Collegio romano, insomma, quando il tirocinio ecclesiale veniva messo a dura prova dalla necessità avvertita dal principe di comporre anziché pregare, di suonare con la chitarra “quarte eccedenti” anziché accordi armonici (contro i dettami del Concilio di Trento sulla musica liturgica).

8. Musica e assenza di suono, ovvero della vita e della morte

Si può facilmente dedurre che se la musica riempie la vita di Carlo Gesualdo, laddove essa manca v’è preludio di morte. Tarabbia eccelle nel governare lo slittamento tra l’una e l’altra condizione. Anche qui, non senza novità. Solitamente è la morte dei due nobili amanti a dominare in via del tutto esclusiva la scena. In Madrigale senza suono invece il duplice omicidio è ricondotto a cronaca fedele di una tormentata biografia, a dettaglio senz’altro di valore, per la capacità che esso ha avuto di caratterizzare gli sviluppi musicali dell’artista, ma non meno di quanto probabilmente lo fu la morte del fratello Luigi e dei suoi diritti di primogenitura.

Nella struttura del racconto prevale il rapporto padre/figlio e diverso rilievo assumono le morti dei due figli di Carlo Gesualdo, Alfonsino (avuto da Leonora d’Este) ed Emanuele (avuto da Maria d’Avalos), con il secondo figlio (Alfonsino) che premuore al primo (Emanuele).

Credo che la descrizione della morte di Alfonsino nel castello di Gesualdo rimarrà tra i passi più belli della nostra letteratura per la robustezza espressiva e il peso di senso di cui è dotata. Il resto lo compie una persuasiva operazione di trasfigurazione: la sconfitta dinastica degli Estensi, rimasti senza eredi nel comando di una Ferrara ritornata sotto il dominio del papa, sarà di cattivo presagio per lo stesso casato dei Gesualdo; le sofferenze patite da Alfonsino saranno le stesse di quelle patite da Carlo, così come la morte di Emanuele – figlio mai riconciliatosi veramente col padre – coinciderà con la morte del principe stesso, dando avvio alla cronaca. (Riproduzione riservata©). [Continua > per andare alla Parte IV > clicca qui].