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Pazzi furiosi (secondo il diritto romano) / III

4. La cura “emica”

Di qui la cura “emica” proposta da McClintock, che decide così di attingere ad sua specializzazione, coltivata negli ultimi anni con maestria: l’antropologia. Dice l’autrice: le culture si descrivono e si interpretano utilizzando per quanto più sia possibile concetti “vicini all’esperienza” dei loro possessori; il che vuol dire muoversi all’interno degli spazi storici considerati, dopo esservi entrati nudi, spogliati di tutto ciò che deriverebbe dall’esterno, che rimane dunque fuori; spogliarsi, insomma, del proprio sguardo (etico) per assumere “gli occhi degli altri” cui intendiamo riferirci, di cui intendiamo raccontare l’esperienza. Assumere una posizione “emica”, insomma, significherebbe – sotto diverso angolo visuale – recuperare quella visione storica del diritto romano cui si è tante volte abdicato – in chiave pandettistica – per conclusioni attualizzanti.

Si era creduto che una simile pretesa fosse stata liquidata definitivamente dall’autorevolezza di Riccardo Orestano, che non lasciò passare sotto silenzio l’“inconsapevolezza semantica” di chi aveva utilizzato con troppa leggerezza il termine “continuità” nell’esercizio del proprio lavoro scientifico. Eppure le discussioni che negli anni si sono succedute, incentrate sull’arbitrarietà o meno della comparazione tra diritto romano e diritto moderno, non sono state prive di conseguenze. Va evidenziato innanzitutto che autori come Behrends, Zimmermann e Knütel sono riusciti a catturare oggi una forte attenzione, costringendo storici da sempre critici contro il loro atteggiamento neo-pandettistico a ritornare su posizioni che ritenevano magari archiviate, giacché pacificamente condivise.

In secondo luogo, sempre su questo versante, va segnalata una preoccupante “complicazione paleografica” individuata con acume dall’autrice, la quale non a caso prende le mosse dall’ingresso della cultura greca in quella romana, sapendo di non dover trascurare tutto ciò che è dipeso o disceso dalle classificazioni prima platoniche poi stoiche nella determinazione di un immaginario positivo o meno in ordine alla follia. Si tratta di due diversi gruppi: l’uno, di matrice platonica, che rimanda a stati eccezionali e di possessione divina; l’altro, di matrice stoica, per cui la follia è una malattia umana che si estende alla “insipienza”. L’approfondimento lessicale dell’autrice si muove all’interno di questi margini: da un lato il “furiosus” (vittima positiva della possessione divina), dall’altro lato l’“insanus” (vittima negativa della malattia mentale). Nel mezzo una pluralità di altri vocaboli.

5. La lingua dei giuristi

Dove si colloca, allora, la lingua dei giuristi?

“La lingua dei giuristi si colloca senz’altro a parte rispetto alla lingua dei medici, dei poeti, degli oratori e degli scrittori; i giuristi amano differenziarsi o comunque non confondersi con gli altri; evitano accuratamente le parole di senso comune, magari ne introducono alcune di senso specifico e viceversa: letterati e medici difficilmente utilizzano le parole dei giuristi”. Detto altrimenti: il diritto romano ha privilegiato il vocabolario che richiama l’immaginario positivo della follia. I termini “furiosus”, “demens” e “mente captus”, anche quantitativamente, prevalgono nei Digesta rispetto ad altri vocaboli riconducibili alla malattia (“insanus”, “fatuus”, “lunaticus”, ecc). Guardando indietro, alle Institutiones di Gaio, il dato è confermato: “furor” prevale su “insania”.

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